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È la storia di Wladyslaw Szpilman, pianista ebreo polacco, attraverso la Seconda Guerra Mondiale, dall’occupazione di Varsavia all’arrivo dell’Armata Rossa. Il film è diviso in due parti: la prima è incentrata sulla famiglia Szpilman, dall’iniziale mix di stupore e indignazione per le leggi razziali alla reclusione nel ghetto, infine alla deportazione; col treno che parte, e Wladyslaw che rimane giù, inizia la seconda parte, la fuga del pianista, il suo continuo cambiar nascondiglio, sempre a un passo dalla cattura, a mezzo dalla morte, a nessuno dall’orrore che in quegli anni ha avvolto Varsavia – non solo Varsavia. |
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Tratto dall’autobiografia di Szpilman “Death of a city”, il film segna il ritorno di Roman Polanski al cinema d’alto livello, dopo l’incidente de “La nona porta”; film particolarmente sentito, visto che l’incubo di Wladyslaw è lo stesso che ha segnato l’infanzia del regista, eppure, fortunatamente, assolutamente scevro di pateticità, mai intento a movēre artificiosamente più di quanto i fatti, da soli, riescano.
La prima parte è strutturalmente dinamica, ai continui spostamenti delle famiglie ebree si accompagna una costante evoluzione della coscienza collettiva, passando dall’iniziale fiducia mal riposta negli alleati anglo-francesi allo scoramento di fronte ai crescenti soprusi delle S.S., alla maturazione dell’idea di rivolta, alla speranza nel destino ed allo spegnersi di quest’ultima. La seconda parte è l’opposto, l’incessante cambiar nascondiglio di Wladyslaw rappresenta la staticità della situazione creatasi: non sa che fare, né è in grado di fare nulla, ma solo di nascondersi, anzi, di farsi nascondere, passivo, attonito, impotente di fronte alla Storia, intento unicamente a soddisfare il primario istinto di sopravvivenza, minato nel fisico, annullato nello spirito. Spettatore tanto quanto noi. Di contro, quando le sue dita arrivano nei pressi dei tasti d’un pianoforte, l’amore per la musica si rivela più potente di quello per la vita stessa, in grado di rigenerare la sua anima, di farla esprimere attraverso un’arte che le sue mani distrutte non faticano a creare; in grado di salvargli la vita, davanti ad un capitano tedesco che lo ascolta suonare e lo aiuta a nascondersi.
Il ghetto distrutto, ultimo nascondiglio del pianista, è uno scenario sconvolgente: al di là del muro si spalanca un unico cumulo di macerie dalla forma d’una città fantasma, un apocalisse al quale nemmeno un dio potrebbe esser sopravvissuto – la morte è nelle case distrutte, nella strada impercorribile, nell’aria stessa, nel respiro di Wladyslaw nel gelo dell’inverno polacco.
Il finale vede Szpilman eseguire il Notturno che aveva interrotto 6 anni prima: una scelta, forse l’unica, toccante, assolutamente cinematografica; ma, sul piano del racconto, rischia di dare l’impressione che tutto ciò che è successo sia stato solo una parentesi, ed il Pianista possa riprendere la propria vita dal punto in cui l’aveva interrotta. Così si chiudono tutte le favole, molti film. Non la Storia.
Palma d'oro 2002.
Premio oscar per la regia, per il protagonista Adrien Brody, per la sceneggiatura non originale. |
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A mio parere, il miglior film sull'olocausto. Stravincente su Shindler's List, poiché molto più coinvolgente. Inchino ad Adrien Brody senza il quale tutta l'estrema drammaticità dei fatti, non sarebbe stata la stessa.
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Storia cruda, diretta e semplice ma al tempo stesso potente, come lo sono tante che riguardano la shoah: a raccontarla questa volta è Polanski, in un film sulla memoria in cui insiste anche una componente autobiografica. La ricostruzione storica è aderente alla realtà dell'epoca,gli attori sono molto bravi.La fotografia è eccellente (spettacolari, ad esempio, sono le immagini delle macerie del ghetto di Varsavia). Lo stile risulta efficace nel delineare le vicende che portano il pianista a evitare la deportazione e l'eccidio di massa e a salvarsi -tra le altre cose- anche con l'aiuto di un tedesco. Senza scivolare mai nel patetico il film fa riflettere sulla finalità di perpetuare la memoria di ciò che è stato per impedire che il passato si riproponga.Concordo poi col commento di Tees: è vero che il protagonista non perde mai la sua umiltà e i suoi modi civili però, in realtà, non sono questi elementi a sottrarlo alla morte bensì il riconoscimento dello straordinario talento artistico
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