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Dopo la presentazione al Festival di Cannes, arriva in Italia L’arco, l’ultimo film di Kim Ki-duk, “il più occidentale tra i registi orientali”. Dopo il premio de La samaritana all’ultimo Festival di Berlino ed il successo veneziano di Ferro 3, per l’artista coreano, apparso per la prima volta in Italia alla Mostra di Venezia 2000 con lo sconvolgente L’isola, si può parlare di definitiva affermazione. |
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Kim Ki-duk, lei non ha studiato per fare il regista, ma c’è finito praticamente per caso: cosa significa per lei il cinema? |
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Il cinema è comunicazione, quella tra me e lo spettatore, quella tra i diversi punti di vista e l’oggettività d’una cosa; un dialogo, che non vuol affatto dire che debba esserci una storia: il mio cinema è un dialogo fatto d’immagini, come per la pittura. Questa è la comunicazione che cerco, ed è anche l’unica che mi senta in grado di offrire in un mondo per il quale non m’ero preparato. |
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E’ per questo che viene considerato il più europeo, tra i registi orientali? |
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Nella scelta delle immagini, al posto delle storie, per comunicare; sì, in Corea c’è proprio un diverso tipo di cinema, più commerciale, molto americano e molto poco europeo. Tant’è che ho avuto più successo qui in Europa che a casa mia… |
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Dove nasce questa differenza? |
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Nasce qui in Europa, ovviamente. Sono dieci anni che viaggio, conosco continuamente differenti stili di vita, è inevitabile che mi differenzi dai sedentari registi coreani. L’altro motivo è nella mia formazione: non nasco regista, ma pittore, ed il mio passaggio al cinema è stato un trasloco delle mie idee e dei miei metodi, non un cambiamento. Io faccio il regista come farei il pittore, gli altri no. |
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I suoi esordi mostrano crudezza, se non vera e propria violenza. Perché? |
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Per me era un’esigenza mostrare la crudeltà della vita: la vita è fatta per la maggior parte di tristezza e disperazione. |
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Non sembra la stessa cosa per i suoi film più recenti, tipo Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera. Quest’esigenza è cessata? |
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Non è cessata, sono io che mi comporto diversamente, mi sono ‘ammorbidito’… Mi riesce più facile esprimermi attraverso una metafora pittorica: io continuo a rappresentare il nero del mondo, solo che adesso scelgo uno sfondo bianco per farlo risaltare. Per quel che riguarda La samaritana, ad esempio, ho cercato di evitare polemiche che distraessero il pubblico dal significato del film: da qui la rinuncia a scene di sesso o comunque disturbanti. |
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Lei è stato premiato nei più importanti concorsi mondiali: c’entra anche questo col suo ‘ammorbidimento’, come lo ha chiamato lei? |
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No, anche perché i primi successi li ho ottenuti proprio con le mie opere più dure. Mi sforzo di non pensare ai premi ricevuti, perché sono dell’opinione che chi riceve premi s’impigrisca, perdendo la sua vena artistica. Spero che non mi succeda, preferirei smettere di ricevere premi! |
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Basterebbe partecipare a meno festival… negli ultimi tempi non ne ha disertato uno, incluso l’ultimo Cannes. |
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Mi piace portare le mie opere in giro per il mondo, ed i festival sono il modo migliore per lanciarle. Ma questo non cambia il mio modo d’intendere il lavoro: L’arco, appena uscito a Cannes, è stato girato interamente in mare, parla d’un vecchio, un egoista, ma parla soprattutto dell’acqua, nella sua ambiguità elementare. Per questo il titolo può essere inteso come un’arma mortifera o uno strumento musicale che, al contrario, migliora, addolcendola, la vita. |
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Parliamo del film che esce adesso in Italia, L’arco. In Corea non ha avuto una gran circolazione. |
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L’arco è' uno dei film più sentimentali che abbia mai girato. Non ho un buon rapporto né con i critici coreani, che non capiscono i miei film, né con il pubblico, viziato; preferisco di gran lunga quello occidentale, che riesce a guardare, e quindi a giudicare, i miei film con il cuore. |
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Si sente pronto per il salto ad Hollywood, come John Woo? |
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Non scherziamo: quella è un’industria, che all’oriente chiede solo dei soggetti da occidentalizzare e, magari, rivendere proprio in oriente. Andare ad Hollywood: per cosa poi, per produrre film più costosi? Ma a me non serve, i miei film costano poco, non hanno bisogno né di dispendio di denaro, né di tempo, né di attori famosi da strapagare. No, non ho voglia di essere occidentalizzato. Non ho voglia di essere democratizzato. |
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Un riferimento esplicito a qualcosa che, col cinema, non c’entra molto. |
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La guerra? E cos’è stato, fino ad oggi, il cinema? Io sono nato in una nazione spaccata in due, attorno a me vedo guerre per esportare la propria pace, la propria democrazia, la propria religione. Forse ho bisogno, per una volta, di una grossa produzione che mi permetta di parlare di guerra: voglio dipingerla in un quadro grottesco, perché è l’unico modo di rappresentarla, quando è spacciata per la volontà divina. |
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E adesso? |
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Le idee non mancano: ho almeno 5 progetti in testa, ma non voglio fare film affrettati. Finché non avrò chiaro in mente come tradurli in pellicola, mi considero in pausa. |
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