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Liberamente ispirato al libro omonimo di Walter Veltroni.
Piccole storie che aprono spiragli e visioni sulla grande storia: un viaggio nell'Africa martoriata dalla guerra, la fame e l'Aids, attraverso il Mozambico, l'Angola, l'Uganda, il Senegal, il Cameroun ed il Sud Africa. Storie di bambini soldato e di bambini accusati di stregoneria. Di uomini e donne, soprattutto donne, che lottano contro la malattia, la miseria, la diaspora dell'emigrazione. |
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Il punto di partenza è il libro “Forse Dio è malato” (frase pronunciata da un prete) di Walter Veltroni: da quel libro, l’idea di dare forma visiva ai problemi e alle sofferenze di una nazione, oggi più che mai lontana da quello che può essere considerato ‘Primo Mondo’.
“Forse Dio è malato” non è la versione cinematografica del libro: Franco Brogi Taviani ha cercato di raccontare le stesse storie, di focalizzarsi sugli stessi problemi affrontati da Veltroni; la sua non è una ricostruzione, una messa in scena di un copione ‘vecchio’, ma è la constatazione che guardando di persona si ritrovano, purtroppo, le stesse, identiche situazioni descritte nel libro.
Perché farlo, è la domanda che si è posto Taviani così come fa bene a porsela chiunque si trovi di fronte al prodotto finito: per mostrare, per gridare, senza riuscire a proporre soluzioni, a parlare di speranza. “Non voglio più sperare” è la prima frase del film. E dice tutto. Il grido è una richiesta d’aiuto, ma anche un atto d’accusa: l’Europa lascia milioni di uomini ai margini del progresso. L’Europa non sa rispondere alla richiesta d’aiuto, la speranza – se ce n’è una – è che si renda conto delle accuse.
Taviani mostra di rendersi conto bene che lo scopo – la forma solo a tratti – del film è documentaristico; spesso la narrazione esce dalla diegesi per mostrare se stessa, il cameraman di fronte ai bambini, le interviste in macchina, le scelte di regia. Anche la brutta sovraimpressione di Siya Mazukeni (la giovane cantante sudafricana che funge da commento off), togliendo intensità in alcuni momenti ‘a rischio’, permette di non perdersi nella fiction. Ma alla fiction Tavani non resiste del tutto: la sovrapposizione di rumori tra due scene, ad anticipare il contenuto della successiva sulle immagini della precedente, così come l’indugiare della macchina da presa sugli occhi di un bambino che piange, fanno sconfinare quella che poteva essere un’operazione di denuncia nel pietismo, nel tentativo di commuovere attraverso il mezzo cinematografico quando le immagini, le parole, i fatti dovevano bastare.
E allora, fiction sia: e come fiction, “Forse Dio è malato”, non è un gran ché. Rimane l’intento, che non può non essere apprezzato e premiato; rimane il libro, slegato dal film pur con le forti somiglianze – a tratti coincidenze. E soprattutto rimane, invariato, il problema-Africa. |