Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Lars von Trier Le regole del gioco

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a cura di Andrea Olivieri
Il testo diviso fra parole e immagini - dove gli attori spesso sono solo icone, figure illustrative, mentre la storia, del tutto metaforica, è raccontata solo a parole e recitata sul 'pavimento' - riporta il cinema ai suoi valori 'primitivi'.
Oggetto di grandi passioni contrastanti, il cinema di Lars Von Trier torna a innovare e a stupire; "Il grande capo" è la commedia satirica che il regista danese ha dedicato al mondo del lavoro di oggi. La presa in giro del capitalismo, mutuato attraverso le suggestioni di una società buonista e politicamente corretta. Amaro e surreale, il film di Lars Von Trier mostra come l'era digitale possa portare ad eccessi e abusi, creando figure fittizie che controllano il nostro immaginario come moloch e idoli digitali cui sacrificare ambizioni, aspirazioni, casa e famiglia.
Un cinema che non sia puramente di illusione e di evasione: perciò i Manifesti, i Dogmi (documenti a favore della spontaneità e verginità del mezzo espressivo) e le altre provocazioni, sono riusciti a togliere quell’alto strato di polvere che era posato sugli occhi degli spettatori ormai impigriti da un cinema affaticato, sempre uguale a se stesso. Lars Von Trier si è messo in discussione verbalizzando i suoi pensieri, il suo modo di fare cinema, come un vero e proprio atto d’amore nei confronti di quest’arte. Una profonda esigenza di raccontare attraverso le immagini: prima ha appreso la tecnica cinematografica, poi l’ha sperimentata rimodellandola a suo piacimento.
La suggestione dei suoi film nasce dall’impianto scenico teatrale, dalla lavorazione manuale della cinepresa e dalla stilizzazione di ambienti e personaggi che pongono il dramma sotto il microscopio di un vero e proprio laboratorio. Film quindi con elementi di coraggio, non solo per forma, ma perché posti su zone di confine impalpabili il bene e il male; l’arroganza di chi uccide e di chi perdona, la morale qualunque di un qualunque 'villaggio' (sociale) con quella strutturata nel verso del potere delle gang organizzate (la società).
I suoi possibili limiti (di morali sull’ipocrisia, sulla meccanica sado/masochista, sul labile confine della complicità tra carnefice e vittima sono piene le bobine di sempre), potevano offuscarne l’interpretazione, ma la 'pretesa' provocatoria dell’autore rimane confinata alla sfera moralistica e psicologica, al dubbio sull’arroganza e le sue interpretazioni, invadendo soltanto un dialogo all’altezza dei temi sollevati. Quasi che di arrogante in fondo non ci sia altro che l’autore visibilmente compiaciuto delle trovate da palcoscenico.
Dire che si tratta di film pessimisti è perciò sopra le righe: nelle opere di Von Trier abbiamo semplicemente una descrizione, una presa d’atto, condita con sapienza dei mezzi cinematografici, dell’inesprimibile, del labirinto in cui rimangono spesso senza via d’uscita i sentimenti umani. Semplici 'vendette' non sarebbero state sicuramente più appropriate del lavoro indubbiamente intellettuale che l’autore, anche sceneggiatore, si è impegnato a fare per trovare motivazioni credibili al ribaltamento finale dei ruoli.
L’errore di fondo (l’unico possibile) che limita la potenzialità di un linguaggio centrato su temi fin troppo riconoscibili, è quindi la superbia. Solo uno dei fattori in gioco nei destini umani. E’ invece possibile partire dalla 'constatazione' dell’essere umano per poi costruire una comunicazione verso altre sfere di significati (evoluzione). Una nuova trovata espressiva, perciò, definita da lui stesso 'fusionnel'; cioè mescolanza artistica di cinema, teatro e letteratura.
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