Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Questo non è un titolo Perché non ci si limita a tradurre i titoli dei film?

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a cura di Glauco Almonte
Ci sono difetti di cui i film italiani sono immuni, o almeno ce n’è uno: la traduzione del titolo per il mercato italiano. L’obiettivo, come è giusto che sia, è attirare il maggior numero possibile di spettatori; in linea puramente teorica dovrebbe essere attirare il maggior numero di spettatori a cui può piacere il film, che non è proprio la stessa cosa... Quella che un tempo era soltanto la ricerca di un titolo adatto al mercato, e in Italia abbiamo attraversato una fase in cui addirittura si producevano film soltanto per lanciare sul mercato titoli di sicuro successo (accadde soprattutto con i poliziotteschi e gli spaghetti western), adesso ha tante forme, a volte è il tentativo di raggirare lo spettatore facendogli credere quel che non è, a volte è il disperato bisogno di cavalcare il successo altrui, a volte appare addirittura come un’inesplicabile scelta casuale, che puntualmente si ritorce contro il proprio cervellotico autore che vede sale deserte per film campioni d’incasso in patria (uno degli ultimi esempi è “Moneyball” lanciato come “L’arte di vincere”, cambiando dunque il titolo che aveva avuto diverse candidature all’Oscar e affondando definitivamente un film sul baseball, che già di suo non aveva certo la strada spianata).
A pochi giorni dall’uscita in sala di titoli improbabili quali “Cosa cade dal cielo?” (ottima commedia vincitrice del Festival di Roma con il titolo “Un cuento chino”) e “Il mio migliore incubo!” (altra commedia presentata alla kermesse capitolina, peccato che il titolo originale francese così come quello inglese con cui figurava nel catalogo fossero l’esatto contrario, “Il mio peggiore incubo”), è il caso di controllare la situazione per vedere fino a che punto sia giunta la deriva o se le cose siano ancora recuperabili.

Titoli che hanno fatto la storia

La storia del cinema è costellata di titoli immortali inventati dai distributori italiani: basti pensare a Orson Welles (“Citizen Kane” per noi è “Quarto potere”, “Touch of Evil” è “L’infernale Quinlan”), John Ford (da “Stagecoach” a “Ombre rosse”, da “The grapes of wrath” a “Furore”, da “The searchers” a “Sentieri selvaggi”) e Alfred Hitchcock (“Vertigo” è “La donna che visse due volte”, “North by Northwest” è “Intrigo internazionale”, a “Rebecca” viene aggiunto “la prima moglie), a cui si aggiungono i vari “Quinto potere” (“Network” di Sidney Lumet), “Un dollaro d’onore” (“Rio Bravo” di Howard Hawks, qui la colpa è di chi pochi anni prima aveva tradotto proprio con “Rio Bravo” il “Rio grande” di Ford) e il semplicissimo “M” di Fritz Lang che diventa “M, il mostro di Dusseldorf”, aggiungendo nel titolo la specifica di una città che non è mai nemmeno citata all’interno del film. O a Woody Allen il cui “Bananas” diventa “Il Dittatore dello Stato libero di Bananas”. Eppure tutti questi titoli hanno un senso ben preciso, sono felici invenzioni che rendono l’idea del film, a volte meglio che nel titolo originale, a volte semplicemente in una maniera più adatta per la fruizione italiana. Ovviamente non è tutto oro quel che viene dal passato: nel 1970 Truffaut ha visto diventare il proprio “Domicile conjugal” l’assurdo “Non drammatizziamo... è solo questione di corna!”, e forse si potrebbe accusare proprio questo titolo d’essere il punto di non ritorno... Due anni dopo tocca a Billy Wilder assistere alla trasformazione da “Avanti!” a “Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?”, mentre negli anni ’80, sulla scia dei vari “Sapore di mare” un semplice “Meglio tardi che mai!” diventa “Profumo di mare”. Ma la situazione è ancora sotto controllo.

Vale la pena?

La domanda che si pone ogni spettatore prima di scegliere un film è la seguente: vale la pena andare fino al cinema, cercare parcheggio, spendere dai 7 ai 10 euro per vedere questo film? Quel che può fare un distributore è dare quante più informazioni possibili fin dal titolo: se mi interessa il thriller dalle suggestioni soprannaturali sceglierò più facilmente “Presagio finale” che “First Snow”, così come “Nella rete del serial killer” dichiara il proprio genere meglio di “Untraceable” e “Il mistero della pietra magica” dice molto, ma molto di più di “Shorts”. Raggiunge il suo pubblico anche “Piacere, sono un po’ incinta”, mentre se avessero lasciato l’originale “Il piano B” qualcuno sarebbe potuto entrare in sala ignaro di cosa potesse aspettarlo. Spettatore avvisato, mezzo salvato: “Ricatto d’amore” è la classica commedia con due persone diverse che litigano fino a scoprire di amarsi (“The Proposal” non comunica niente, al contrario), per scoprire che i “Longshots” sono “Una squadra molto speciale” di football ci vuole il titolo italiano, e addirittura nel recente “The Girl with the Dragon Tattoo” viene chiarita la sua natura di sequel riciclando il titolo del primo film e specificando la saga di riferimento, che diventa così “Millennium – Uomini che odiano le donne”.

Di necessità virtù

Altre volte la scelta è più cervellotica, e il nuovo titolo punta su un aspetto della vicenda che il titolo originale non tiene in considerazione: alcune volte si fa di necessità virtù, e titoli vaghi o difficilmente traducibili prendono nuova forma (è il caso di “Flypaper” che diventa “Le regole della truffa” o di “Tetro”, nome proprio del protagonista del film di Coppola che conosciamo come “Segreti di famiglia”). Altre volte la scelta non lascia traccia indelebile, come in “Charlie St. Cloud” che diventa “Segui il tuo cuore”, “Elegy” “Lezioni d’amore” e “Life. Support. Music” che trova forma lessicale in “Il silenzio prima della musica”.
C’è poi chi i problemi se li va a cercare: “Valentine’s Day” è un film fatto esclusivamente per sbancare il botteghino a San Valentino. In Italia che si fa? La Warner lo porta in sala con un mese di ritardo, ed è costretta a cambiare il titolo in “Appuntamento con l’amore”.
C’è anche qualche esempio virtuoso: sempre alla Warner, dove evidentemente alternano alti e bassi, alle prese con il complicato “Due Date” hanno partorito – è proprio il caso di dirlo – il titolo solo in apparenza demenziale “Parto col folle”, ma che in realtà, oltre ad essere fedele specchio del proprio contenuto, arricchisce il titolo del doppio senso tra partire e partorire – caratteristico del film – che nell’originale non c’era.

A domanda, risposta. Ma la risposta è sbagliata

Quando si sceglie di non tradurre un titolo, ma di sostituirlo con uno ‘migliore’, se va male si aprono tre scenari. Il primo è quello in cui lo spettatore si chiede semplicemente ‘perchè?’, ‘perché “Fireflies in the garden” diventa “Un segreto tra di noi”?’, ‘perché “The city of your final destination” diventa “Quella sera dorata” e “Les grandes personnes” diventa “Il viaggio di Jeanne”?’, ‘perché alla domanda “What Just Happened?” si preferisce rispondere “Disastro a Hollywood”?’, ma la domanda non è un rimprovero perché il nuovo titolo non è peggiore dell’originale.
Il secondo caso solleva qualche perplessità maggiore, “Una proposta per dire sì” in vece di “Leap Year” sembra un titolo scelto con parole a caso, “Codice: Genesi” a differenza di “The Book of Eli” non vuol dire nulla e vedere il film non chiarisce il senso del titolo, “Beyond a Reasonable Doubt” poteva essere semplicemente tradotto invece di diventare “Un alibi perfetto”. E che dire di “Man on a ledge”, letteralmente l’uomo sul cornicione, che proprio di un uomo su un cornicione parla e non di un diamante di “40 carati”, ma semmai dal valore di 40 milioni?
Nel terzo caso c’è rimpianto per quel che poteva e non è stato, vuoi per la censura, vuoi per l’incapacità di rendere un gioco di parole: “Il petroliere” è uno dei migliori film del decennio, ma il fascino del titolo “There Will Be Blood” è ormai perduto; “Easy Girl” non ha incassato nulla, e certamente non gli ha giovato perdere il riferimento alla lettera scarlatta contenuto nel titolo “Easy A”, senza contare che lo si è pure lasciato in inglese. “Il canto di Paloma” è la scelta bigotta per “La teta asustada”, che pure aveva vinto Berlino e non conteneva alcun riferimento erotico; riferimenti che sono stati emendati da “I love you Philip Morris” che assume il doppio, innocuo titolo “Colpo di fulmine – Il mago della truffa”, ignorando il rapporto omosessuale tra i due protagonisti, anzi l’amore dell’uno per l’altro che è il motore di ogni azione.

La banalizzazione: per un pubblico semplice

Entriamo adesso nel campo delle scelte idealmente sbagliate, ovvero quelle che partono da presupporti criticabili. La più innocua, che però è specchio delle richieste del pubblico italiano, è la banalizzazione del film: i film con titoli complessi vengono associati nell’immaginario collettivo a film d’autore, o comunque non alla portata di tutti. Il bellissimo “Cloudy With a Chance of Meatballs” diventa un banalissimo “Piovono Polpette”, traduzione equiparabile a un crimine di lesa maestà; i bambini lo hanno apprezzato lo stesso, e tanti saluti al gioco di parole. “(500) Days of Summer” diventa “500 giorni insieme”, rinunciando anche in questo caso a un gioco di parole che si sarebbe potuto mantenere con “500 giorni di Sole”, chiamando Sole e Luna le due ragazze Summer e Autumn. Altra semplificazione da strapparsi i capelli è il passaggio da “36 vues du Pic Saint-Loup” a un titolo anonimo quale “Questione di punti di vista”, e sulla stessa strada sono la scelte “Fuori controllo” per “Edge of Darkness” e “Noi due sconosciuti” per “Things We Lost In The Fire”.
Solo per Vendetta”, altro titolo che non dice nulla del film, scaturisce dall’incapacità di replicare in italiano un modo di dire quale “The Hungry Rabbit Jumps”; infine, così come nel paragrafo precedente, anche una forma di auto-censura può portare a una banalizzazione: “Zack & Miri make a porno” diventa “Zack & Miri – Amore a primo sesso”, scelta doppiamente criticabile perché, oltre a limitarsi a comunicare qualcosa comune a tutte le commedie di quel genere, sostituisce l’impulso iniziale – decidere di girare un film porno – con il risultato finale – i due protagonisti s’innamorano. D’accordo, chi va al cinema sa benissimo che finirà così, ma almeno per questione di forma mettere il finale nel titolo era una cosa che si potevano risparmiare.

Scemo o più scemo: per un pubblico demente

Il passo successivo è quello di rivolgersi a un pubblico di idioti, e se il mercato in questi anni non è crollato vuol dire che la scelta, purtroppo, dà i suoi frutti. Tra qualche mese arriverà nelle nostre sale “Lo spaventapassere”, e non ci sono parole per commentare la trasformazione del titolo originale “The Sitter”, che oltre a non essere idiota dice anche qualcosa sul suo protagonista. Negli ultimi anni il fenomeno è in forte espansione: cinque anni fa il bel film di Francis VeberLa Doublure” è stato lanciato in Italia come “Una top model nel mio letto” tenendo ben lontani dalle sale molti potenziali spettatori che avrebbero sicuramente apprezzato una commedia intelligente e garbata. Da allora abbiamo avuto anche qualche titolo che ha raggiunto il pubblico giusto (“Strafumati”, nella sua idiozia, richiama gli spettatori giusti per “Pineapple Express”), ma la maggior parte delle scelte tendenti al demenziale si è rivelata sbagliata, su tutte “The Guard” che, bontà della Eagle, è uscito come “Un poliziotto da Happy Hour”. Altri esempi? “La chanche de ma vie” diventa “Per sfortuna che ci sei”, “Old dogs” è “Daddy Sitter” (che vince anche in bruttezza), “Just Go With It” diventa “Mia moglie per finta”. Ti vedo e ti piango, titolo idiota, ma soprattutto ti evito perché è un insulto a me spettatore.

I parassiti dei guadagni altrui

L’ultima categoria, che è anche la più diffusa, è quella che meglio esprime la sostanza attuale dell’industria cinematografica: i film si fanno per incassare (e fin qui, tralasciando i discorsi sul cinema d’autore, c’è poco da dire), ma l’unica strada intrapresa per andare sul sicuro è replicare ciò che ha già incassato, e per essere ancore più sicuri anche il titolo deve fare il verso a qualcosa di successo, e se non ci pensa la produzione tocca alla distribuzione.
Quattro matrimoni e un funerale” ha sbancato tutti i botteghini? Bene, ecco “Quattro amici e un matrimonio” (“Sione’s Wedding”), e un po’ meno espliciti “Un matrimonio all’inglese” (“Easy Virtue”) e “Tre uomini e una pecora” (“A few best men”). Ancor più smaccato il seguito de “Il mio grosso grasso matrimonio greco” che senza avere sequel ha ben due fratellastri (“My Life in Ruins” ovvero “Le mie grosse grasse vacanze greche” con la stessa attrice protagonista e “Fat Albert” ovvero “Il mio grosso grasso amico Albert” con lo stesso regista). Assistendo alla trasformazione di “Grown Ups” in “Un weekend da bamboccioni” torna alla mente “Un violento weekend di terrore”, traduzione quasi scontata di “Death Weekend” a soli 4 anni dal celebre “Un tranquillo weekend di paura”. Anche Pieraccioni ha fatto scuola, e sulla scia de “Il Paradiso all’improvviso” siamo stati inondati dai vari “L’amore all’improvviso” (“Larry Crowne”), “Un amore all’improvviso” (“The Time Traveller’s Wife”) e “Tre all’improvviso” (“Life as we know it”). “Harry ti presento Sally” ha ispirato la traduzione di una saga completa: “Meet the Parents”, “Meet the Fockers” e “Little Fockers”, rispettivamente “Ti presento i miei”, “Mi presenti i tuoi?” e “Vi presento i nostri”. Un’altra forma che spopola è la commedia causa-effetto, ovvero “Se scappi ti sposo” (“Runaway Bride”), “Prima ti sposo, poi ti rovino” (“Intolerable Cruelty”), “Se mi guardi mi sciolgo” (“Picture This! ”), “Se ti investo mi sposi?” (“Elvis has left the building”, mamma mia) e, dulcis in fundo, il più efferato delitto del cinema contemporaneo, “Se mi lasci ti cancello” al posto del sublime (come il film, d’altro canto) “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”.
Poco tempo dopo il successo di “40 anni vergine” ecco uscire in sala “14 anni vergine”, peccato che il titolo originale fosse “Full of It”; non si contano gli anni dal film di Spike Lee, ma “The Wackness” appare in Italia come “Fa’ la cosa sbagliata”; “The Hangover” punta con successo sul titolo “Una notte da leoni”, “Bride Wars” su “La mia migliore nemica”, una delle poche combinazioni ancora disponibili per l’accoppiata migliore/peggiore-nemico/amico/a. Ultimi esempi: “Tutti insieme inevitabilmente” al posto di “Four Christmases”, “No Strings Attached” che diventa “Amici, amanti e...”.
Spazio amarcord: 25 anni fa il messicano “Beaks” usciva in Italia come “Uccelli 2”, ma forse è il caso di considerarlo parte integrante della moda di lanciare i finti sequel, da “Zombi 2” a “La casa 3” a “Troll 2”, del quale addirittura non esisteva l’1. Operazioni che oggi fanno tenerezza.

Conclusioni

Non c’è rispetto per il pubblico. Purtroppo è questa la conclusione a cui si giunge, constatando il numero e la qualità degli esempi portati. Negli ultimi anni la distribuzione in Italia, e non soltanto quella del grande giro in mano a poche società, funziona a pieno regime: per pochi casi rari, un paio di titoli intelligenti e un concorso (mai ripetuto) della Lucky Red per cercare online il titolo de “Il truffacuori” (a proposito, complimenti: quando si dice andarsela a cercare...), assistiamo settimanalmente al tentativo di togliere al pubblico l’elemento che lo dovrebbe maggiormente contraddistinguere: la capacità di scegliere se e cosa andare a vedere. L’offerta cinematografica, che già non brilla per varietà, è dai titoli svilita, ridotta a poche categorie: si cerca di attirare lo spettatore non con la qualità del film, ma aggrappandosi a un film precedente che ha avuto successo. Non contano più le differenze tra i film, ma le somiglianze; non serve il giudizio dei critici, è il titolo stesso la miglior recensione del film.
Ma un’ultima domanda nasce spontanea: il pubblico si merita più rispetto? Chi affolla le sale per una miriade di film uguali con titoli uguali, e continua dimostrandosi quindi soddisfatto, merita un trattamento diverso? La risposta sarebbe retorica.