Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Fratelli Dardenne Simboli essenziali di vissuto ai margini

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a cura di Andrea Olivieri
In concorso al 61° Festival di Cannes con "Il matrimonio di Lorna", i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne non vincono la Palma d'Oro, e questa è già una notizia dopo i due trionfi di "Rosetta" e "L'enfant".
L'approccio in effetti non è quello solito, "Il matrimonio di Lorna" ha una struttuva narrativa più articolata, c'è un maggior uso dei dialoghi, tant'è che il film non torna comunque a casa a mani vuote, premiato per la miglior sceneggiatura. La storia è dura, e non poteva essere altrimenti, giocata in una Liegi finalmente più ariosa del paesino dei film precedenti, lasciando allo spettatore l'identificazione con la giovane donna protagonista, l'albanese Lorna. Le motivazioni del suo matrimonio appaiono chiare improvvisamente, quando però Lorna ha già imboccato la strada che trasformerà il mondo finto che ha offerto a Claudy in un'uscita dalla realtà alla ricerca dell'amore, o forse solo di serenità.
E' come sempre una storia ai margini, ma inquadrata stavolta in un contesto - la mafia albanese, i matrimoni finti per avere la cittadinanza europea - di realtà radicata, con un risvolto sociale che abbraccia, nell'ombra, una porzione consistente delle miserie del mondo.
"L'enfant" si può considerare invece ancora perfettamente nella scia del cinema d'impegno sociale dei Dardenne, un cinema che ha sempre come protagonisti persone che vivono ai margini della società.
La bravura di un autore consiste anche nel riuscire a farti avvicinare, vedere, condividere una realtà che altrimenti non avresti voluto conoscere, a ricordarci quello che vorremmo dimenticare. La bravura dei due fratelli Dardenne, Luc e Jean-Pierre, che diversi anni fa avevano conquistato il cuore di Cannes anche con "La promesse", sta nel restare fedeli a un cinema di documentazione e provocazione sociale senza furbizie, cedimenti, nel farci partecipare, nel costringerci a vedere.
Il loro cinema è un travaglio che elabora oltre che i contenuti del film, le forme con cui essi sono rappresentati. La loro regia, attraverso un uso particolare della macchina da presa, del montaggio e del sonoro, toglie alla sceneggiatura e ai dialoghi un ruolo puramente didascalico; lasciando invece al rapporto stretto fra macchina da presa, spazi e corpi, il compito di mostrare l’evidenza del reale. Per chi fa una scelta del genere, non c’è infatti bisogno di molte parole; per filmare su pellicola il disastro della condizione umana di fine millennio, non è necessario "dire" il rumore del mondo: basta aderire al soggetto senza scorgere le strategie (di messa in scena), identificandosi solamente col personaggio, con le sue urla (mute) di ribellione. Figli di un Dio minore, tutti i protagonisti di questo cinema, hanno le radici troncate e una traiettoria umana che assomiglia agli ultimi guizzi di un corpo in agonia. Guerrieri del quotidiano, provano a riemerge dal nulla con una precisa richiesta, il minimo possibile per vivere con dignità: un’ "occupazione" che li faccia esistere agli occhi del mondo. Tanto da non correre a farla finita.
I fratelli Dardenne "abbracciano" ogni personaggio, poi si fermano, per pudore e per pietà. E lasciano che la mano "dell’offeso" l’aiuti a rialzarsi. I due registi optano per una messa in scena ossessiva e affannosa, una sorta di movimento impossibile all’interno di una gabbia mentale, con la steady-cam "allenata" a ripetere meccanicamente i gesti del suo personaggio. Anche il montaggio delle scene, l’una incalzante sull’altra, va nel senso del respiro affannato. Il suono insegue l’ambiente, impedisce la distrazione e concentra l’attenzione sui rumori di fondo. La sceneggiatura registra il presente, nient’altro che il presente. Esprime tutti quei "simboli" mirati a comprendere l’espressione di chi sopravvive, sospensione dopo sospensione, al mestiere delle armi che afferma sé stessi: l'obiettivo addosso per la claustrofobia dei sentimenti.
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