Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Marco Bellocchio Lo sguardo ribelle

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a cura di Andrea Olivieri
"Un regista che non riesce a fare il suo film, il cinema nel cinema e un carosello sulla spiaggia con sposa, sposo e suocere con cappello. Melodramma e musica di formazione". Così Marco Bellocchio sintetizza la trama del suo nuovo film "Il regista di matrimoni", interpretato da Sergio Castellitto.
Dopo "Buongiorno Notte" (la colpa, il passato) Marco Bellocchio dirige un film sul presente, sulla visione multipla del mondo e sullo sguardo futuro: quello di Bellocchio e quello del nostro cinema.
Il cinema di chi non si arrende. Di ragioni e immagini. Di metodologia soggettiva allestita per guardare dentro al film. Il testo filmico (realtà filtrata) ritrova la sua forma materializzando la propria identità con una narrazione esemplare da innamoramento improvviso. Il contesto ambientale viene progressivamente svuotato fin quasi a coincidere con la 'casa' e i suoi cerimoniali. Fremiti rivoluzionari, segni dello scontro che si consuma fra l’attore e il personaggio e la soggettività dell’autore, quell’entità astratta che si chiama Passione (dell'invenzione e dell'intuizione registica), finisce per ingaggiare uno lotta contro la chiusura di 'senso'.
Dal malcostume professionale, che trascende i significati 'occasionali' per sconfinare in quelle morali, privo di onestà, che denuncia la disonesta ignoranza magistralmente tradotta in sequenza (Sbatti il mostro in prima pagina), al profondo delle stanze sotto i tetti, dove i figli di papà consumano le loro 'manie' da 'diavolo in corpo' (I pugni in tasca). Dai temi autobiografici, ripiegati su se stessi, mediativi, ed allo stesso tempo barocchi e splendidamente espressionistici (Nel nome del padre), ad un cinema più vicino alla realtà quotidiana, più aperto sul futuro (L’ora di religione): Marco Bellocchio dipinge un’umanità allucinante di individui del domani, in un mondo segnato dalla mancanza di una guida, di una speranza, di un modello che non fosse quello dell’ipocrisia e dell’oscurantismo.
Tra le pieghe del sarcasmo (o dell’allegoria), il fondo del 'discorso' è rimasto però lo stesso. Il mutamento è solo apparente.
La costrizione, la mediocrità, la tristezza dello spirito, si traducono in maniera 'esaltata' nella ripetitività del comportamento. Nel rituale del gesto quotidiano è tradotta la follia del nostro tempo, oltre quella dei suoi protagonisti.
Immagini che sfuggano alla banalità televisiva, perché coscienti che alla fine quello che vale è sempre l'attore, la sua emozione, la sua vibrazione: Bellocchio è cresciuto sulle ali della contestazione e sulle idee di sinistra, ma il suo non è mai stato un cinema di aperta denuncia politica, ma di riflessione (certo anticonformista) sull'intimo. Cinema della rappresentazione dei confini fra ragione e follia, realtà e sogno. Cineasta della 'rivolta', il suo è un punto di vista a pochi metri di distanza. L’esplosione delle ondate ribelli, i simboli del 'profondo', vengono allora ad infrangersi contro la barriera splendidamente disciplinata delle immagini, e tutto è già avvenuto; la propria esteriorità, la propria autonomia dal meccanismo: le armi che abbiamo a disposizione sono proprio le azioni di tutti i giorni.
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