Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Ken Loach Piovono pietre... della rappresentazione 'simbolica'

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a cura di Andrea Olivieri
"C’è un’alternativa allo sfruttamento del più forte sul più debole anche se nel nostro 'mondo libero' tutto è diventato merce di scambio". Il messaggio viene lanciato da Ken Loach, in concorso alla 64esima Mostra del Cinema di Venezia con 'It’s a free world', ennesima pellicola del regista inglese dedicato al mondo del lavoro e alle sue dinamiche spesso contraddittorie.
"Racconto l'immigrazione ma attraverso lo sguardo dei padroni": la pellicola del regista britannico fa ritornare al tempo della schiavitù. Ambientato nella Londra multietnica dell’East End, nei capannoni sull’autostrada e nelle periferie londinesi, il film di Loach si sofferma sul personaggio di Angie che rappresenta una donna che a sua volta è stata sfruttata, licenziata da trenta posti e che decide di svoltare sfruttando dei poveri immigrati di varia provenienza, perpetrando un circolo vizioso iniziato dai suoi stessi datori di lavoro. Gli immigrati sono prevalentemente dell’Europa dell’Est, sono i più lavoratori e silenziosi.
"Con questo film - ha spiegato Ken Loach - abbiamo voluto sfidare la convinzione secondo la quale la spregiudicatezza imprenditoriale è lunico modo in cui la società può progredire, l’idea che tutto sia merce di scambio, che l’economia debba essere pura competizione, totalmente orientata al marketing e che questo è il modo in cui dovremmo vivere". "Invece - ha assicurato - un alternativa c’è, anche se le due protagoniste, Angie e Rose, si comportano come vuole la nostra società, ossia pensando che si debba fregare il prossimo; lavorare contro qualcuno non con qualcuno. E questa è un’idea da combattere". Occorre mettere l''affermazione in gioco'; non esiste più alcun scrupolo, solidarietà, dignità, solo il profitto. È facile sapere contro cosa si combatte. Più difficile è sapere in cosa davvero si crede.
Ken Loach da sempre imprigiona i suoi personaggi in una interiorità che affiora per frammenti implacabili nei confronti dello spettatore. C'è l'attore, il suo corpo e il suo disegno; vittime materializzate sullo schermo, condannate a restare ai margini di una società che da tempo ha azzerato la solidarietà e la ricerca condivisa di un ideale per il quale valga la pena lottare.
Il 'distacco' regala nuove prospettive, utopie realizzabili, profetiche anticipazioni: l'amarezza del suo cinema consiste proprio nel descrivere una 'condizione' borderline; arrivano le motivazioni sociali, le aperture al mondo del proletariato, i problemi dell’emigrazione, l'istinto della solidarietà che lega gli umili che, pur allontanandosi dal rispetto per se stessi, riconoscono ed esaltano la retorica della fatica per stimolare la volontà di far 'carriera' nel Reale esercizio di mente e di cuore, di risate, indignazione e azione.
Quello di Ken 'il rosso' è un cinema che ci appartiene e allo stesso tempo ci travalica, attraversa come un luogo delle pulsazioni dell'umano. Una semplice codifica (emotività primaria) di perfette gabbie formali, una teoria del cinema compiuta e autoreferenziale, aderisce alla verità profonda dell'immagine in movimento: il cinema poi per rubare alla parola poetica il 'suono'. La sua arte vive perciò di caratteristiche proprie ed originali. Prima di tutto di quella prepotenza del segno visivo che emerge da ogni proiezione e che permette allo spettatore di entrare nel film: sentirne gli odori, i profumi, vivere le scene che si fanno vere nella loro immediatezza. La realtà di un visione cinematografica che cristallizza un 'reale' in 'parola', 'segno' o 'linguaggio', è quindi il tempo presente vissuto nella storia del film; irripetibile, ma capace di incatenare la nostra attenzione, attimo per attimo, offrendoci contemporaneamente una realtà completa, densa di significati.
Variazioni sul tema del miserabilismo a di tinte livide: sguardi sempre uguali, sempre diversi, capaci di tratteggiare una 'riconfigurazione' filmica universale (la lucidità e l'elaborazione dei fatti), sognante, astratta, dispiegata in una soluzione che si abbandona a una riflessione, o meglio decanta le emozioni di una rappresentazione che implicitamente accoglie una riflessione. Ricordi, sentimenti, nostalgie o rimpianti, spesso devono farsi carico di ruoli e responsabilità; nell'assenza di strutture sociali, istituzionali, familiari, il 'senso ideale' di queste esistenze in bilico (la lotta tra padri e figli ha lasciato in terra questi ultimi) va quantificato, misurato, sottoposto a una verifica concreta, anche a rischio di distruggerlo. Emergono dei percorsi di formazione o, più semplicemente, le tracce di un possibile cambiamento e di una speranza che possano proiettarli all'interno di dimensioni simboliche (una Babele di impulsi) capaci, anche agli occhi dello spettatore, di assumere un respiro se non proprio esemplare almeno emblematico.
La febbrile tensione verso un riscatto e gli abissi sospesi - speziati - di una 'angosciosa attualità', continuano ad essere le traiettorie opposte di un cinema che si alimenta sull’energia del perdono, del cinema e della vita: senza scendere mai a compromessi.
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