Cannes 2007 27/05: les jeux sont faits

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*a cura di Glauco Almonte*

Adesso le carte sono scoperte tutte. Con la proiezione dell’attesissimo “Promise me this” di Emir Kusturica, già vincitore nella Palma d’oro nel 1985 con “Papà è in viaggo d'affari” e dieci anni dopo con “Underground”, e di “Mogari no mori” (The Mourning Forest) di Naomi Kawase sono finiti i ventidue film in lizza per la vittoria finale.
La storia di Tsane, che dal suo villaggio parte per la città con una mucca, unico bene della famiglia, da vendere per tornare con una sposa, è piaciuta; il marchio di fabbrica di Kusturica è ampiamente riconoscibile: ironia, musica, pazzia. Il pubblico apprezza, senza però le forme di delirio che hanno accompagnato il film di Tarantino: in parte la stanchezza di queste due settimane, in parte l’attesa per il vincitore, hanno attutito i clamori attorno a queste ultime proiezioni.
Clamore che suscita, ma anche questo al di sotto delle aspettative, il documentario di Andrej Nekrasov e Olga Konskaya “Ribellione, il caso Livtinenko”: non è un attacco diretto a Vladimir Putin, come ci si poteva aspettare, ma un reportage dal quale emerge una Russia ai minimi termini, in cui chi governa nega libertà, pace e diritti; “credo Dostoevskij, se vivesse oggi, sarebbe in galera”, scherza – nemmeno tanto – il regista. Che poi parla di sé: “Il desiderio di essere onesto e di ristabilire la verità è un piacere liberatorio, un istinto più forte della paura”.
Contro un potere diverso si scaglia invece Kusturica in conferenza stampa, pur mantenendo la consueta ironia: “io sono un autore contro, lo sarò sempre. <...> Le guerre di oggi non sono come quelle di una volta: Hitler invase la Polonia per odio, oggi bombardano la Serbia per eccesso d’amore”. Tornando al film, girato in un villaggio costruito intorno alla sua casa (nella regione di Uzice, poco fuori Belgrado), il regista bosniaco confessa che si tratta della prima volta in cui riesce a rispettare i tempi e il budget; “forse perché il produttore era mia moglie”, conclude.
“Promise me this” può portare a Kusturica la sua terza Palma d’oro, e sarebbe il primo a riuscirvi; ma non è in primissima fila, anche in considerazione dell’abitudine delle giurie di tenere in minor considerazione i film dell’ultimo giorno perché troppo freschi nella loro memoria. Questa prima fila, dalla quale è altrettanto raro che si vinca, è occupata da due film: “No Country for Old Men”, l’avventura di un uomo in fuga in Texas tra soldi, droga e assassini firmata da Joel ed Ethan Coen (già vincitori nel ’91 con “Barton Fink”, premiati dalla giuria sei anni fa con “L’uomo che non c’era”), e “Paranoid Park”, la storia di un sedicenne che uccide per sbaglio una guardia e si trova risucchiato in una spirale di violenza e insensatezza girata da un altro vincitore di Cannes (nel 2003 con “Elephant”), Gus Van Sant.
La posizione migliore per questa volata la occupano tre film bellissimi, ai quali nemmeno la Palma d’oro garantirà il successo in sala: “Le scaphandre et le papillon” di Julian Schnabel, la storia vera del giornalista francese Jean Dominique Bauby che, costretto all’immobilità da una paralisi totale, ha dettato l’autobiografia con i movimenti del solo occhio sinistro, “The Edge of Heaven”, i sei personaggi in cerca d’integrazione di Fatih Akin, e “4 lune, 3 settimane e 2 giorni” del romeno Christian Mungiu sono tipici film ‘da festival’, amati dalle giurie e da chiunque finisca (per sbaglio) a vederli. A loro sfavore potrebbe giocare l’ordine ‘dall’alto’ di non fare harakiri come i festival di Venezia o Berlino nel premiare film che non si affermeranno nelle sale.
Pesa come un macigno l’assenza di Aleksander Sokurov, ufficialmente per motivi di salute ma, meno ufficialmente, in disaccordo con la sorpresa-Livtinenko: “Alexandra” sarebbe altrimenti stato il favorito numero uno.
Tra gli outsider, film che in altre edizioni avrebbero tranquillamente potuto vincere, “My Blueberry Nights” di Wong Kar-wai, presidente della giuria dell’anno scorso (si sdebiteranno con lui?), il film di David Fincher “Zodiac”, ‘guardia e ladri’ tra un serial killer, la Polizia e i media, “Import Export”, la storia firmata da Ulrich Seidl di un’infermiera ucraina e una guardia giurata austriaca che si scambiano i loro mondi, l’est con l’ovest; e ancora, “Stellet Licht”, un ottimo Carlos Reygadas che racconta un adulterio in una comunità mennonita e “Secret Sunshine”, Lee Chang-dong e la sua insegnante di pianoforte che, rimasta vedova, si trasferisce insieme al figlio ma non riesce a trovare la pace nemmeno nella fede.
Previsioni, con questa schiera di contendenti, è inutile farne.