Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Andy Warhol Nell'occhio di Warhol

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a cura di Glauco Almonte
“Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più.
Penso che ognuno dovrebbe essere una macchina.
Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina”

A.Warhol


Nulla nella vita di Andy Warhol rivela la sua volontà d’automazione; molto, invece, nella sua produzione pittorica: fin dalle sue prime opere è il contenuto, non la forma, al centro dell’attenzione tanto dell’autore quanto dello spettatore. La sua egolatria s’inchina di fronte all’oggetto delle sue rappresentazioni: la società contemporanea, il mondo ma ancor più l’America vista non attraverso i suoi occhi d’individuo, ma quelli indistinti della massa. Sulla volontà di rappresentazione prevale la necessità dell’oggetto di essere rappresentato; l’intenzione artistica non è accompagnata dal virtuosismo tecnico, la mano vorrebbe scomparire lasciando sul campo soltanto l’idea.
Prima scarpe, quindi bottiglie di Coca-cola, dollari, zuppa di pomodoro, scatole di corn-flakes, e ancora Marilyn Monroe, Mickey Mouse: la galleria dai soggetti di Warhol è un supermercato, una collezione di simboli del consumismo, l’immagine superficiale e la coscienza profonda dell’America; le cose, il denaro, hanno più valore della natura, dell’uomo, del sentimento. Non è una critica, ma una constatazione: ciò che vorrebbe esser serio non ha più valore del banale.
Warhol riesce a rendere questa carenza di significato attraverso la ripetizione del soggetto rappresentato, spogliandolo della sua funzionalità; «La vita è una ripetizione di accadimenti- dice,- una serie di immagini che cambiano mentre si ripetono». Nella riproposizione industriale della stessa immagine, sfumata appena dal momento o dall’umore, Andy di-mostra questa vita.

La riproduzione in serie d’un soggetto segna, nella carriera di Warhol, l’inizio del successo; la sua arte viene recepita allo stesso modo da tutti, diventa popolare quanto gli oggetti stessi delle sue opere. La sua unicità risalta in ogni confronto con altri artisti, non solo della corrente Pop. Il paragone più importante dev’essere quello con chi s’è cimentato, con altre motivazioni, nella ripetizione come forma d’arte: Maurits Cornelis Escher; per far questo ci viene in aiuto la contemporaneità della retrospettiva romana Nell’occhio di Escher e dell’Andy Warhol Show a Milano.
Se ciò che lega, visivamente, alcune opere di questi due ‘estranei’ è la ripetitività dell’oggetto, bisogna iniziare dalle motivazioni di questa scelta: Warhol parte dall’oggetto e lo moltiplica fino a creare uno spazio pieno di quell’immagine; Escher parte dalla superficie e la suddivide fino ad arrivare all’oggetto. Nell’uno la realizzazione artistica è nella totalità delle immagini, nell’altro è nell’individuazione della singola forma. Si giunge così al paradosso per il quale un simbolo è spogliato della sua importanza, mentre acquista valore un’immagine non pensata, ma nata dalla divisione dello spazio a disposizione. Il loro percorso, su binari opposti, li porta ad una destinazione non coincidente, ma molto prossima. L’Oggetto di Warhol è incollato ad una superficie piatta, ogni possibilità di profondità è volutamente stroncata (questo almeno fino al 1970, quando inizierà ad utilizzare degli sfondi); il non-oggetto escheriano nasce invece proprio tra le pieghe della superficie, ad essa si sovrappone e da essa continuamente si separa. Per Warhol il moltiplicarsi di un’immagine porta ad una moltitudine, per Escher ad un’infinità: questa differenza, tra realtà e geometria, porta Warhol ad accontentarsi del risultato visivo ottenuto, concentrandosi nella ricerca di diversi soggetti da rappresentare, non di verità metafisiche ma sociali; l’olandese cerca, con successo, il modo di esprimere formalmente l’infinito in potenza delle sue prime opere. Il piano entra in costante rapporto con la terza dimensione.

Nella costruzione delle ripetizioni warholiane l’unico parametro fisico che conta è lo spazio, nelle due sole dimensioni del piano. Il suo sguardo al modello metafisico italiano si ferma all’ammirazione per Giorgio De Chirico, nel quale la stessa forma si ripete nel tempo in opere diverse; Warhol tende invece a spogliare l’oggetto di ogni significato che esuli dalla sua materialità.
L’apparente semplicità del suo disegno è comunque ancora lontana dalla moda dell’installazione che ha preso piede negli ultimi anni; l’idea di Warhol si concretizza per mezzo d’una tecnica, per quanto nascosta; l’artista ha ancora bisogno dell’artigiano. Così, ai primi disegni a mano libera, s’affianca la tecnica serigrafica nel ’62, la pittura acrilica, quella ad olio, l’acquarello, fino all’utilizzo del carboncino nel ’78; si cimenta principalmente su carta o tela, non disdegnando il cartone né i pannelli di legno, e in rare occasioni anche il plexiglas.
Dietro all’intuizione che ne ha fatto l’uomo più popolare del secolo passato v’è capacità di analisi della realtà, distacco da essa, probabilmente genialità ma, soprattutto, abilità artistica. Warhol finge che questo non sia importante. Eppure fa di tutto per renderlo evidente.