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Gus Van Sant Storie che parlano della nostra Storia

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a cura di Vaniel Maestosi
Gus Van Sant è di Louisville nel Kentucky, è artista mutiforme: pittore, scrittore, fotografo e musicista. I suoi film sembrano direttamente usciti dal clima Beat Generation, dal desiderio di raccontare la strada che accoglie la sua gioventù spesso disperata e dispersa, ma sempre tesa e alla ricerca dell’elevazione spirituale. I suoi personaggi intuiscono dietro ogni difficoltà la possibilità di elevarsi, di aspirare alla dignità.
È il 1989 quando Gus, dopo il tentativo senza successo “Malanoche”, dirige il film che lo rivela al grande pubblico: “Drugstore Cowboy”. Storia in pieno genere Bonny e Clyde, intrisa di droga, strada e gioventù bruciata; dichiarato omaggio alla Beat tanto che uno dei suoi santoni, William Burroughs, è anche immortalato in alcune scene.
Già all’inizio racconta confini ed esperienze diverse, non si limita a constatare il disagio ma lo mostra; svela da subito i temi che affermeranno il suo stile. A van Sant piacciono i particolari, storie indipendenti, distribuzioni non massificate, sceneggiature difficili e irriverenti. Nel 1995 scopre e lancia addirittura Nicole Kidman nell’interessantissimo “Da morire”, storia di una barbie di provincia pronta a tutto per diventare giornalista televisiva; mentre nel 1997 si trova tra le mani una delle sceneggiature originali più interessanti degli ultimi anni. Gli autori sono Matt Damon e Ben Affleck, vogliono raccontare la storia di "Will Hunting", giovane, genio e ribelle, figlio umile delle strade di Boston che riesce a districarsi in qualsiasi formula matematica ma non a controllare se stesso, nasconde al mondo ogni emozione, fino a intuire la necessità che ha l’uomo di provarle. Il film vince due Oscar, non la regia, ma proprio la sceneggiatura e lo psicologo Robin Williams che interpreta uno dei suoi ruoli più belli, vicinissimo alla straordinaria emotività dell’ “Attimo Fuggente”.
Il film ha un successo meritato e inaspettato, apre la carriera a Matt Damon e Ben Affleck che in pochissimo tempo diventano star internazionali, e offre a Van Sant la ‘scomoda’ e americana etichetta di regista ‘prima classe’.
Proprio su questo filone nascono “Psyco” che nel 1999 vince addirittura il Razzie Award come peggior film dell’anno e "Scoprendo Forrester". Gli unici film di Van Sant ripetitivi e assolutamente impersonali. Nel secondo dirige Sean Connery che tenta di emulare Robin Williams nell’aiutare l’ascesa spirituale di un ragazzo d’intelligenza superiore ma povero e nero. Il risultato è una copia sbiadita della sceneggiatura di “Will Hunting” che non poteva che finire in un film quasi uguale per sviluppo e spunti al precedente. Lo stesso regista, in un’intervista rilasciata anni dopo a Cannes, dichiarò i grossi problemi che ebbe con la produzione di quei film ma anche come proprio grazie a quei due flop riuscì a liberarsi dell’etichetta e a percorrere le strade a lui personali che cambiarono il suo modo di fare cinema, avvicinandolo all’idea del cinema indipendente; dove appunto il disagio non è solo racconto ma anche immagine.
Nascono in serie i suoi celebrati capolavori: “Gerry”, “Elephant”, “Last Days”, “Paranoid Park” e con loro si afferma indiscutibile il suo vero stile, libero da reticenze produttive, formule e pieno di essenze cinematografiche.
Nel 2003 ecco la Palma d’Oro. “Elephant” stupisce i giurati della croisette ma divide la critica internazionale. Il film è controverso e non pretende un giudizio morbido. È ispirato al massacro della Columbine High School. La narrazione percorre soggettive differenti ma si svolge nell'arco di una sola giornata passata nella scuola che sembrerebbe assolutamente normale fino a che i personaggi centrali della giornata, Eric e Alex, fanno irruzione nell'edificio, seminando morte e terrore per poi uccidersi. E’ un tema che fa venire i brividi, le immagini sono drammatiche e scottano per la loro ancora tragica attualità, non si riesce ad essere partecipi fino in fondo con le teorie della regia ma se ne parla, si discute attorno al film, si crea il presupposto internazionale di considerare un film di Van Sant assolutamente imperdibile, ‘cult’ prima ancora di uscire.
Diventa ospite fisso del Festival di Cannes presentando nel 2005 “Last Days” personalissimo omaggio al leader dei Nirvana Kurt Cobain e vincendo ancora nel 2007, stavolta il Premio Speciale della Giuria, con “Paranoid Park”. Il film è bello e giocando su diversi piani temporali, racconta l’ennesima sfida che gli adolescenti offrono al mondo con il solito disperato tentativo di risalire, di uscire da una condizione per entrare in un’altra. Simile proprio al percorso di Gus, figlio di un commesso viaggiatore, partito girando videoclip di David Bowie e Elton John e arrivato nell’elite del cinema internazionale a mostrare i suoi tragici e meditativi protagonisti e a raccontarci che attraverso ogni tipo di confronto elevarsi sarà possibile a chiunque e facile come aprire gli occhi.
Dopo aver affrontato temi caldi come l'adolescenza e la morte, Van Sant si dedica a un film biografico e più tradizionale. “Milk” è la storia di un omosessuale, un politico, un'icona ma soprattutto un personaggio che con il suo attivismo e la sua sua elezione a consigliere comunale del 1978 ha fatto molto per l'America e i diritti degli Americani. Van Sant mette da parte ogni suo narcisismo registico e, attraverso uno stile asciutto e diretto, ci emoziona con fitti dialoghi e immagini equilibrate e potenti allo stesso momento. L'enfasi, sempre a rischio con un tema caldo come l'omosessualità, è fortunatamente scongiurata. Rimane un'interpretazione magistrale di Sean Penn e l'impressione di aver assistito a una bella storia che, una volta tanto, ha veramente a che fare con la nostra Storia.
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