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Il Novecento lancia una sfida al cinema appena nato: promuovere l’assetto della cultura di massa ancora agli inizi e, contemporaneamente, dare diversa definizione all’arte perché meglio possa svolgere la funzione che i nuovi tempi sentono il bisogno di assegnarle. Il Novecento vince la sfida; chi la perde è però il cinema che, chiamato a traghettare la tradizione verso l’innovazione, si fa in qualche modo catturare dal fascino del passato che tenta di assorbirlo e stravolgerlo. In questa partita giocano un ruolo decisivo anche gli scrittori più rappresentativi della letteratura italiana non solo perché attratti da questa nuova forma di linguaggio che il film mostrava d’essere, non solo dai guadagni che quell’industria prometteva, ma dalla necessità di reagire allo spaesamento a cui li sottoponeva la trasformazione culturale che il cinema andava imponendo. Con qualche sorpresa. «Il buio elettrico» traccia questo itinerario e scopre aspetti insoliti come l’insospettabile attività cinematografica di Giovanni Verga, la consegna di Gabriele D’Annunzio a una sceneggiatura della sua radicale abiura dell’estetismo perciò rimasta ignorata, il sentire teorico di Luigi Pirandello che l’apparenta a Ejzenštejn, sino a Bertolt Brecht che, per così dire, chiude la partita dimostrando che non il cinema ha bisogno della letteratura, ma la letteratura del cinema. |
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