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Alla fine degli anni Venti il Fascismo è fatto, ora bisogna fare l’Italia fascista e andare al cinema con Mussolini è una scelta di italianità. Non importa se è un film militante alla Blasetti o una commedia spensierata alla Camerini, se si canta “Giovinezza Giovinezza” o “Parlami d’amore Mariù”, se i protagonisti indossano la camicia nera o quella bianca dello smoking: tutti , credenti e agnostici, fascisti e non fascisti, collaborano a creare l’immagine di una nuova Italia che si sta trasformando in società di massa.
L’ottimismo nel presente e la speranza nel futuro animano sia l’eroe aviatorio che il fattorino dei grandi magazzini, sia il combattente etico che il giovane scanzonato. I film nazionali si collocano sull’ambiguo confine tra propaganda esplicita e apparente disimpegno. Ma sullo schermo del regime tutto si tiene strategicamente, in un immaginario di celluloide che coinvolge Scipione l’Africano e De Sica, Garibaldi e Amedeo Nazzari, “Casta Diva” e “Mille lire al mese”, Ettore Fieramosca e Macario, l’Impero e Totò. Sono film destinati a rimanere nella storia del cinema non tanto per meriti artistici, ma come documenti di un’epoca, come testimonianza di atteggiamenti culturali e di comportamenti sociali.
Il cinema italiano degli anni Trenta tenta di “rinascere” ogni tre o quattro anni: rinasce “parlante” nel 1930, “rinasce” con intenzioni colte presso la Cines di Emilio Cecchi, “rinasce” con intenzioni etiche ed estetiche durante l’era Freddi, Direttore Generale per la Cinematografia, “rinasce” autarchico e più commerciale col ministro della Cultura Popolare Dino Alfieri. Ma rinasce in maniera illusoria, senza poter vivere, perché privo della libertà di esprimersi e di criticare il presente. Solo dopo la Liberazione il cinema italiano potrà davvero rinascere. |
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