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Nelle pagine segrete della sua Esegesi, Philip K. Dick confessava nel 1978 di non riuscire a trovare nella sua opera un "senso perfettamente compiuto". Anzi, aggiungeva, non c’era suo romanzo che non gli desse l’impressione di una matassa di capelli in cui si intrecciavano tanti elementi disparati: il comico, la religione, l’orrore psicotico, una certa piega sociale, e riferimenti ad alcune "scienze complesse". Il tutto congegnato in un "rimescolio di possibilità" che avrebbe potuto infine "svelare qualcosa di importante e trascurato da un pensiero più ordinato". Se dunque un compito Dick affidò al suo "frugare in punti ellittici, entro strane angolazioni" (insomma, al suo "oscuro scrutare"), fu quello di attraversare tutti i discorsi del suo presente (dalla fisica teorica alla storia delle religioni, dalle neuroscienze alle teorie economiche), e tutti i possibili punti di fuga (dalle utopie politiche alla fede, e persino alla droga), per organizzarli non in una visione incerta del futuro ma nell’improvviso manifestarsi di "altri mondi presenti". L’"intima verità" che lo ossessionò finì per configurarsi come una "forma d’avversione" messa di traverso rispetto al fluire del senso comune, di quello insomma "perfettamente compiuto". Un’avversione che può rendere chiaro persino l’avanzare travolgente di quell’unico mondo che in definitiva emerge dall’angoscioso neoliberalismo distopico dei suoi romanzi: il Sacro Romano Emporio. Dal trionfo dell’Antistato con la vittoria del Terzo Reich agli esiti imprevedibili della biopolitica, dall’uso "produttivo" delle droghe alla pervasività del mercato e alla concezione dell’individuo come residuo, Gabriele Frasca si immerge nei peggiori mondi possibili immaginati da Dick, restituendocene tutta la potenza visionaria. |
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