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Il pubblico occidentale scoprì il cinema giapponese nel 1951 allorché Rashomon vinse il Leone d’oro a Venezia. Fu poi la volta di Mizoguchi, due anni dopo, e di Kinugasa a Cannes nel 1954 (il suo La porta dell’inferno stregò Cocteau per i «più bei colori al mondo»).
A sessant’anni di distanza la nostra conoscenza del cinema del Sol Levante resta forse frammentaria, episodica, legata ai capricci e alle scelte dei festival e certo grazie ad alcuni autori consacrati dalla critica come Ozu, Oshima, Kurosawa e Imamura, o i contemporanei Kitano e Tsukamoto, ma quasi mai coglie la ricchezza di una cinematografia che ha saputo rinnovarsi costantemente sia dal punto di vista stilistico che dei contenuti, muovendosi tra il classicismo della tradizione e le sperimentazioni più ardite.
Questo libro – che Lindau presenta in una edizione rivista e aggiornata – analizza il cinema nipponico in una prospettiva storica, sociale ed estetica, soffermandosi sia sulle vicende più note e studiate, sia sulle sue numerose zone d’ombra, dall'epoca d'oro degli anni '20 e 30', alla «nouvelle vague» nipponica degli anni ’60 fino alla nascita di quel nutrito gruppo di grandi autori quali Kiyoshi Kurosawa, Shinji Aoyama, Masahiro Kobayashi, Jun Ichikawa che sembravano aver definitivamente dischiuso le porte dell’Occidente al cinema giapponese.
Max Tessier è giornalista – ha scritto, tra le altre riviste, per «La revue du cinéma» e «Positif» – e autore di numerosi volumi sul cinema, in particolare quello asiatico. |
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