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Alle soglie della II Guerra Mondiale, Lady Sarah Ashley, un'aristocratica inglese, si trasferisce nel Maryland, in Australia, per entrare in possesso di una fattoria che le è stata lasciata in eredità e che è nelle mire di un altro suo connazionale. Data la sua scarsa conoscenza nel campo dell'allevamento del bestiame, la donna si avvale dell'aiuto e dell'esperienza di un affascinante mandriano dai modi piuttosto grossolani. Nel frattempo, i giapponesi, che hanno già sferrato il duro attacco a Pearl Horbor, bombardano la città di Darwin. |
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”non possiamo farli vincere”
“non vinceranno”
sottofondo: “Somewhere over the rainbow” eseguita dal bambino meticcio con l’armonica
Un regista australiano, due attori australiani (e tanti altri che hanno rinunciato, da Russel Crowe a Heath Ledger), un libro di storia, una cartina geografica (australiana) e la voglia di realizzare un film che parli di un paese enorme ma lontano (ancor più di quanto sia effettivamente nello spazio) attraverso la voce di chi ci ha vissuto, di chi crede di conoscerlo. Un’intenzione di fondo, tantissimo materiale, molti modi per realizzarlo: Buz Luhrmann, regista considerato eccellente giusto da qualche attore che ha lavorato con lui, non sceglie una strada precisa e il risultato sono due film (almeno) invece di uno. Entrambi questi film durano un’ora e mezza, pressappoco. Ma invece di cavalcare la recente moda della saga a tutti i costi, Luhrmann fa un’unica confezione e la chiama “Australia”.
In molti hanno notato elementi in comune con “Via col vento”: “Australia” dura un’ora di meno, Vivien Leigh è svariati livelli sopra a Nicole Kidman per non parlare dell’impietoso confronto Clark Gable-Hugh Jackman, quest’ultimo che sembra finto in nove inquadrature su dieci, con dei denti bianchi improponibili; le sue apparizioni rapresentano buona parte del registro comico del film, e in ogni scena trasuda una sensualità sfacciata ed esagerata, che priva completamente d’equilibrio la coppia. Eppure Nicole adorava Buz, col quale aveva già girato “Moulin Rouge”, al punto di accettare questo film senza nemmeno leggere il copione: probabilmente si aspettava un minimo di considerazione in più… in fin dei conti è spesso chiamata in causa quale icona di bellezza. Tuttavia è nelle atmosfere che “Australia” regge il paragone col polpettone di Victor Fleming, la guerra di sfondo ad una melensa storia d’amore, la paura di non ritrovarsi più, frasi altisonanti al posto dei dialoghi…
L’aspetto tecnico, se non altro in rapporto ad un film di 70 anni prima, doveva essere il cavallo di battaglia di Luhrmann: la scena del bombardamento è una delle migliori mai viste, e nelle carrellate sui crepacci o sulle vastissime pianure si capisce che c’è, se non amore, voglia di comunicare l’essenza un paese attraverso la sua natura, attraverso la sua darkness; eppure è proprio negli esterni che la fotografia di Mandy Walker lascia maggiormente a desiderare, con primi piani che, se non fossimo nel 2008, si direbbero montati in trasparente. Di maggiore interesse l’attenzione alle “generazioni rubate”, i piccoli meticci che fino a pochi decenni fa venivano sottratti alle loro madri e affidati alla chiesa, ma sia il piccolo Nullah che lo stregone suo nonno sembrano avere esclusivamente una funzione narrativa, uno strizzare l’occhio allo spettatore incarnando ciò che è “diverso” e che giustifica la “lontananza” di cui sopra. Il tutto serve, in buona sostanza, ad appesantire una trama inverosimile, una Judy Garland che spunta quando serve (i tuoi sogni diventano davvero realtà) ma che incombe eccessivamente, un protagonista senza nome (quello che è un gioco di parole – o forse l’identificare una persona attraverso il suo mestiere – nel doppiaggio italiano si perde, trasformando drover in mandriano quando serve, in nome proprio quando si rivolgono a lui), la ripetizione di meccanismi che lo spettatore conosce fino alla noia.
Per chiudere è d’uopo una delle battute più riuscite, detta dalla Kidman esattamente a metà film (o alla fine del primo film, secondo la suddivisione logica): “porca vacca!” |