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Recensione: Opium War

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Opium War
titolo originale Opium War
nazione Afghanistan / Giappone / Corea del Sud / Francia
anno 2008
regia Siddiq Barmak
genere Drammatico
durata 90 min.
distribuzione n.d.
cast J. Suba (Joe Harris) • P. Bussian (Don Johnson) • F. Samani (Scorpion) • M. Golbahari (giovane folle)
sceneggiatura S. Barmak
musiche D. Nazarov
fotografia G. Dzulaiev
montaggio S. Barmak
uscita nelle sale  non ancora disponibile 
media voti redazione
Opium War Trama del film
Nell'inferno afgano, i due piloti americani superstiti di un elicottero abbattuto cercano una via di fuga. Intorno a loro spazi immensi, ombre talebane, pastori e contadini. Ma la realtà vista dalla terra è molto diversa da quel che sembra quando si sta in cielo. E così anche i due "alieni" scoprono che in quel pianeta sconosciuto c'è vita, ci sono esseri umani, bambini e vecchi che della guerra non sanno nulla e ancor meno vorrebbero sapere.
Recensione “Opium War”
a cura di Riccardo Rizzo  (voto: 5,5)
Opium war non è un film sulla guerra, tantomeno sulla droga.
Non è un documentario, non è una commedia, non è film drammatico.
Sfugge alle definizioni l’ultimo lavoro di Siddiq Barmak, apprezzato dalla critica per il suo Osama e tornato alla regia con una sceneggiatura semplice e diretta, stilisticamente ben lontana da quella che narrava l’angoscia il dolore e i soprusi di una bambina costretta a subire le violenze del regime talebano.
Siamo sempre in Afghanistan, ma questa volta lo sfondo è minimalista: le reliquie di un carro armato russo, di un autobus e di un elicottero si perdono in un deserto sconfinato, suggestivo impianto scenico nel quale loro malgrado si ritrovano due militari americani a seguito dell’abbattimento del loro elicottero; l’incontro casuale con una famiglia afgana segna l’inizio di un ritorno alla vita, alla speranza, ma è lo voglia di comunicare unita all’impossibilità di farlo che diventa ben presto il fulcro intorno a cui ruota il significato intimo del film. Lungi dal muovere accuse, sensibilizzare coscienze, o analizzare culture dissonanti, Barmak si limita (divertendosi) a mostrare la tragi-comica situazione di persone che la guerra, spacciandosi per caso, ha fatto incontrare. Non mancano momenti spiritosi, come quando i due militari trovano conforto nell’oppio o quando immaginano che sotto a una trentina di burqa si celino, invece che un gruppo di afgani barbuti, avvenenti diciottenni dalla caviglia fina; altre scene, al contrario, evocano la drammaticità della situazione che vivono i protagonisti, come quella in cui si implora l’apocalisse per mettere fine alle sofferenze degli esseri umani, americani o afgani che fossero. Sfortunatamente, però, col passare dei minuti ci si accorge che il film manca di qualsivoglia coerenza narrativa o impianto ideologico, scivolando indifferente sulla pelle dello spettatore senza lasciare alcun segno; un vero peccato, soprattutto quando negli ultimi dieci minuti si tenta grossolanamente di dare una svolta simbolica alla storia, denunciando la carnevalata del voto democratico (tanto caro agli americani) imposto da una delegazione ONU che costringe una dozzina di analfabeti a indicare la preferenza verso uno (a caso) dei candidati.
Al termine della proiezione ci si chiede allora il senso di tutto ciò, senza trovare una risposta. In compenso è stato premiato con il Marc’Aurelio d’oro della critica al Festival Internazionale del film di Roma.
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