Uomo su fune; il reato artistico del secolo, e dopo più di trent’anni la dimostrazione di come possa un documentario su un evento del quale, a priori, non importa a nessuno, interessare, coinvolgere ed emozionare.
“Man on Wire” viene presentato dal suo produttore come il documentario più bello di sempre: è pubblicità, ma in rari casi è stata così vicina ad esprimere la realtà. L’opera di James Marsh, che ripercorre il capolavoro del funambolo Philippe Petit, è di un’intensità che nulla ha di ordinario. Per oltre mezz’ora rapisce, si concede un momento di relax nella preparazione del “colpo” e torna di nuovo a salire, su livelli impensati, impensabili come i 450 metri dal suolo di quel cavo teso tra le due torri gemelle. Il prologo è a dir poco perfetto, con la sola musica ad accompagnare il racconto diretto dei protagonisti di quell’impresa, senza alcuna presentazione: prende forma, cronologicamente, qualcosa di affascinante e pericoloso, illegale ed artisticamente incomparabile, in una parola sublime. Soltanto dopo viene spiegata l’impresa, conosciamo Philippe e vediamo la sua danza tra le due torri di Notre Dame. E’ commovente, ed è solo la prima mossa.
Ciò che fa scattare qualcosa dentro lo spettatore non è tanto la bellezza estetica del gesto, quanto le sensazioni fortissime che tutti, a tanta distanza e con una vita intera di mezzo, provano e riescono a comunicare nel raccontarne la preparazione e l’esecuzione. Cresce la suspense nonostante il finale sia noto, o quantomeno prevedibile: tutti quanti, e non sono poche persone, rivivono quegli eventi mentre li raccontano.
L’alternanza tra testimonianza diretta e immagini d’epoca costituisce il racconto che James Marsh fa di questa follia: sembra un miracolo, e sembra di viverlo di nuovo.
Presentato il 24 ottobre 2008 al Festival di Roma nella sezione “L’altro cinema / Extra”, si tratta della prima proiezione all’estero per questo documentario; a quella data non ha ancora distribuzione, ed è un peccato. |