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Genova, 1963. Tre uomini - un contrabbandiere francese, un indolente protettore e un pastore sardo - decidono di tentare un colpo in grado di cambiare le loro vite. Riescono nell'intento ma il pastore, uccidendo il suo fratello gemello, si finge morto e fugge col bottino e la sua donna. In preda al rimorso, consegna la refurtiva a un prete incontrato per caso su un treno. Il destino gli gioca però un brutto scherzo. |
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io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai
Un'atmosfera artefatta, da teatro di posa, colloca questa sorta di favola nella Genova dei primi anni '60, tra i vicoli della città vecchia, protagonisti della prima parte dell'esposizione, e il porto, protagonista della seconda parte, dello sviluppo e della chiusura delle storie individuali dei pochi personaggi che popolano la pellicola.
Carlo è un ragazzino che si trova per caso a fare il pappone: ha pochi anni meno di quelli che aveva, allora, il suo creatore Fabrizio De André; come lui vive la città trascinandosi da un bar a una puttana, con un “americano” in corpo e un rapporto ancora non definito con la musica, con una chitarra dimenticata a lungo addosso a una parete. Salvatore è un pastore sardo con un passato da fuorilegge e pochi, indissolubili valori: un uomo come quelli che nel '79 sequestrarono De André per quattro mesi. Bernard è una figura più difficile da mettere a fuoco, ha un passato da anarchico e un presente poco chiaro, caratterizzato da uno stile tutto francese, gesti nobili e mente lucida: è un personaggio che sembra uscire dalle atmosfere e dalle parole dei maestri d'oltralpe di De André, Jacques Brel più che Georges Brassens.
Daniele Costantini, con l'aiuto di Franco Ferrini e Antonio Leotti, porta sullo schermo il romanzo “Un destino ridicolo” scritto da De André a Alessandro Gennari nei primi anni '90: si tratta di una trasposizione relativamente libera, nella quale viene salvaguardato il filo conduttore che determina questo “destino ridicolo”, con un'attenzione particolare al tira e molla sentimental-sessuale cui sottostanno le scelte dei personaggi.
Non convince la rinuncia al realismo, probabilmente motivata dal voler rendere fiabesco il racconto, ma che cozza con l'attenzione riservata da De André agli “ultimi” quali veri protagonisti della realtà; dal punto di vista tecnico danno fastidio le luci riflesse sull'obiettivo della macchina da presa. Costantini cerca di intervenire il meno possibile, lasciando spazio agli attori (troppo surreale la recitazione di Fausto Paravidino, in particolare nella prima parte del film), e anche il vortice finale lascia il tempo che trova. Nota di merito per le musiche di Nicola Piovani, che richiamano il tema di “Amore che vieni, amore che vai” senza mai esplicitarlo. |