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Francia, 1977. Stella, una ragazzina dei quartieri operai, viene ammessa a frequentare il primo anno di un prestigioso liceo parigino, dove si trova come un pesce fuor d'acqua finché non conosce Gladys, la prima della classe, figlia di ebrei d'Argentina, amica per errore e per fortuna... |
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Negli ultimi anni in Francia si è aperto un acceso dibattito sulla scuola, sulla sua missione, le sue strutture, il suo futuro e l’attenzione per un’istituzione socialmente così fondante si sta riflettendo anche nelle produzioni cinematografiche francesi. Sono nati piccoli gioielli come “La classe” di Laurent Cantet, “La ricreation” di Claire Simon, “Essere e Avere” di Nicolas Philibert o “La schivata” di Abdellatif Kechiche. Alla lista va ora aggiunto un altro piccolo grande film: “Stella” è un film autobiografico ambientato alla fine degli anni ‘70, ma prova a spiegare ai giovani d’oggi l’importanza della cultura, interpretandola come chiave per sfuggire all’emarginazione e come fonte primaria di libertà.
Stella ha appena 11 anni, ma è cresciuta in fretta. Vive infatti a stretto contatto con i clienti di un decadente bar periferico gestito dai genitori. Le sue umili origini non le impediscono, però, di essere ammessa in una prestigiosa scuola media di Parigi. L’inizio dell’anno scolastico è traumatico e Stella si sente sola e smarrita. Il film prova dunque a seguire la piccola protagonista durante quell’anno che le cambierà per sempre la vita. Grazie alla compagna di classe Gladys, la protagonista capisce infatti che il mondo in cui è cresciuta non è l’unico possibile e che sicuramente non le appartiene. La voce fuori campo scompare gradualmente con lo scorrere della pellicola. Stella sta crescendo e cultura e letteratura rimpiazzano ben presto le precedenti conoscenze acquisite su calcio, sesso e cocktails. Le parole ‘rubate’ alle canzoni del jukebox, le uniche che potesse usare per esprimersi, diventano ora parole di Balzac, Margherite Dumas, Cocteau. C’è il primo amore, c’è la voglia di riscatto, c’è la nascita della sensibilità, c’è il dolore, c’è l’universalità dell’adolescenza.
La regista Sylvie Verheyde, al suo terzo film, è brava e intelligente nel rendere giustizia a un’età delicata, senza cadere in sentimentalismi superflui o in banalizzazioni strumentali. Oltre all’ultima interpretazione del compianto Guillaume Depardieu (figlio di Gérard), rimane una sincera commozione per un film di formazione che parla di cultura senza alcuna forma di snobismo e affronta i nodi più controversi della società con un garbo e una sensibilità fuori dal comune. |