La provincia “non più rurale, non ancora urbana” di Paravidino non si trova in qualche parte imprecisata del Piemonte, ma in ogni centro abitato, dal più piccolo alla metropoli. I ragazzi che vivono il loro ‘Texas’ in questa via di mezzo tra campagna e periferia sono gli stessi della Magliana, di Correggio o di uno dei tanti luoghi della memoria dello spettatore, gli uni cloni degli altri ma prima ancora di un concetto di gioventù in bilico perenne tra aspettative più o meno concrete e malessere esistenziale. Eppure, questi ragazzi che sanno di già visto fin dalla prima scena risultano, per la maggior parte, specchio fedele di una realtà distorta quel poco che richiede la brevità d’un film.
I meriti del regista non sono pochi: era difficile raccontare una storia che gli spettatori già conoscono senza annoiarli (giocando anche sulla voglia dello spettatore di sentirsi raccontare sempre la stessa storia...), Paravidino ci riesce quasi sempre, fatta eccezione per l’ormai irrinunciabile schema narrativo: subito quello che potremmo ribattezzare il ‘quasi finale’, solitamente il punto di massimo disordine, quindi il corpo del film che spiega come si è arrivati a tal punto e la conclusione, spesso consolatoria. Mentre nella prima parte il film si nutre della tradizione del genere, soffermandosi un po’ troppo sui volti in lacrime dei protagonisti per far crescere la curiosità (perché poi, non raccontando in sostanza nulla di nuovo), la parte centrale scorre via senza intoppi, spezzando un ritmo veloce al punto giusto con alcuni squarci surreali.
Tra gli attori più bravi gli adulti dei ragazzi, tra i quali si distinguono comunque Carlo Orlando e, a tratti, Iris Fusetti; la sua espressione, quando Gianluca-Scamarcio le presenta gli amici, è la degna sintesi del film: allucinata, leggermente ironica ma sincera. |