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Walt Kowalski, un reduce della guerra di Corea di carattere burbero e spavaldo, prova una grande passione per la propria Ford Gran Torino, modello classico del 1972, custodita in garage. Walt non mostra pudore nel manifestare il proprio sentimento anticoreano, nato durante la sua campagna in Corea, quando vide morire suoi amici per mano dei nemici. A peggiorare la situazione, il quartiere da lui abitato negli ultimi anni è diventato il principale centro suburbano della comunità coreana, e le bande giovanili danno molto fastidio a Walt. Anche se frustrati e maltrattati da Kowalski, i coreani aiuteranno l'uomo a risolvere i problemi personali che ha con la famiglia, per diventare amici e aiutarlo a ripudiare il razzismo. |
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Vorrei ma non posso.
Walt Kowalski è un personaggio troppo ben delineato, e Clint Eastwood è troppo bravo nella sua interpretazione per non pensare ad un parallelo tra i due, tra l’attore-regista notoriamente conservatore e apparentemente burbero, ma dalle inaspettate aperture, e il protagonista solo, incattivito e razzista. E’ troppo intelligente Clint per non saperlo, e si mette in gioco con maestria stupefacente: ne esce fuori di gran lunga il suo personaggio più vero, per uno che nella sua carriera ha interpretato soprattutto delle icone. Ne esce fuori un ritratto che si delinea e al contempo si evolve, mostrando ai “clintiani della seconda ora” (quelli che fino a pochi anni fa erano prevenuti, ma che hanno infine riconosciuto le sue ampie vedute, maggiori di quelle di molti tra coloro che si definiscono progressisti) che la lezione che ha impartito loro la sa ripetere sullo schermo, che conosce i suoi punti critici e ha imparato a confrontarsi.
Kowalski è un reduce della guerra in Corea ma non è un militare né un militarista; è solo ma non è un misantropo, e il suo atteggiamento è l’unica forma di difesa che conosce. Tutto ciò che Kowalski è emerge chiaramente in virtù di una prima parte eccessivamente didascalica, una sequenza di scene per lo più slegate tra loro, mirate a comporre un puzzle generale. La cosa buona è che mentre questo puzzle si compone la situazione è già in forte evoluzione, evitando di appesantire con un’eccessiva staticità la parte iniziale; non sembra dunque un caso che, dopo cinque film lunghi, stavolta riesca a chiudere prima dello scoccare della seconda ora. L’opera rimane comunque altalenante, le parti drammatiche e le scene di raccordo, compresi gli intermezzi comici, si affiancano ma non si fondono; ogni evento racchiude in sé un unico significato, e la sequenza di questi significati porta ad un film semplice – non che sia un difetto, anzi – ma prevedibile.
Dal punto di vista tecnico Eastwood è ormai inattaccabile: una regia perfetta si affianca ad un’interpretazione solida e apparentemente naturale; probabilmente è un film che ha semplicemente bisogno di tempo prima che i suoi personaggi così comuni al di là degli stereotipi di facciata riescano a fare breccia. E’ forse troppo diretto perché lo spettatore possa fidarsi completamente: il messaggio è universale, l’affetto non si compra ma si guadagna, la solitudine non si combatte ma si affronta, gli errori non si dimenticano ma servono per insegnarci a fare la cosa giusta in futuro. Quanto al finale non c’è bisogno di condividerlo: è l’ultimo retaggio dell’uomo che conosciamo a inizio film e che un’ora e mezza dopo non ricordiamo più; anche quando si cambia, anche quando si abbattono le proprie difese, una persona è l’insieme di tutto ciò che è stata nella sua vita. La medaglia sul petto, la bandiera in giardino sono solo dei simboli: Clint lo sa, e proprio in quanto simboli non vi rinuncia. |
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Commenti del pubblico |
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