"Equilibri di potere."
Come "Dogville", "Manderlay" è pensato con intelligenza, abilità metaforica, intenzionalità. Il congegno "intellettuale" torna in ogni accostamento e allusione, rimane più forte della maestria cinematografica (succede nel cinema di Von Trier).
Nella piantagione di "Manderlay", Grace scopre che non la segregazione ma la schiavitù vi regna ancora. Coperta da un gruppo di gangster prestati da papà, impone così una caricatura di democrazia. E’ l’America di Lars Von Trier, un (non) luogo ricostruito completamente in studio, in un percorso segnato dal gesso, in cui non c’è mai il riscatto nella verità, ma il tradimento nel gioco truccato, nell’idea di eguaglianza politica dentro la terra promessa, nella rinuncia a ripensare un mondo migliore. L’istante è più importante del tutto, è la (scarsa) resistenza al desiderio di non lasciare tracce.
Von Trier punta sempre tutto sull’imbarazzo (teorico) del ribaltamento di ogni principio, generando dubbi e sospetti sulla comprensione della coesistenza pacifica, con l’effetto di ritenere (beffardamente) che l’unica realtà esiste soltanto al di fuori della finzione. D’altra parte le "intuizioni" più che interessanti di "Dogville", sono in "Manderlay", paradossalmente, quelle che non vengono spiegate, ma piuttosto quelle manifestate. La tempesta di sabbia che distrugge la piantagione di cotone di Manderlay, segna l’inizio di una parte del film indubbiamente più convincente rispetto alle "immagini" di critica (retorica) ad un’America razzista e bigotta, che fa leva sulla tipica abilità del regista danese: colpire allo stomaco lo spettatore con una spietata descrizione del dolore e della sofferenza (e sul suo paradossale concetto di poesia). La propria libertà: tutto si svolge in funzione di questa drammatica condizione umana. Poi, una volta ottenuta, gli abitanti di Manderlay non sapranno come sfruttarla e, una volta compreso il concetto di "democrazia", torneranno a scegliere di essere schiavi e di continuare ad (auto) imporsi le loro assurde (coerenti) "categorie", gettando le maschere e dimostrando ciò che sono in realtà.
Eccola qui la nuova parabola di Von Trier, anche se in questo caso il "peccato originale" (l’omogeneità inquietante) è sicuramente meno potente, viscerale e universale di "Dogville".
Presentato in concorso a Cannes 2005. |
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