Quattro anni dopo "Il corridore", Majid Nirumand (lo stesso protagonista del film precedente), è alla ricerca della sua famiglia in un villaggio abbandonato in seguito allo strano ed improvviso prosciugarsi di un lago naturale.
L'intera opera è una sinfonia sonora e visiva: pochi dialoghi, costante presenza del vento di sabbia che sibila senza sosta; qualche rumore, il latrare dei cani, il rullare dei tamburi dei beduini che passano e poi lo sprigionarsi, unico, della Quinta Sinfonia di Beethoven.
Lo scenario è invece apocalittico; mentre seguiamo Majid nella sua ricerca affannosa, la macchina da presa affida a campi lunghi il compito di immortalare carcasse di animali morti, mostrare barche che galleggiano sulle dune, crepe profonde di un terreno sempre più arido come se avesse voltato la sua faccia indietro nel tempo e nello spazio.
In questa desolazione, in questo incubo sempre uguale a se stesso, prende forma la poesia di Naderi.
In un paesaggio apocalittico sempre avvolto da tempeste di sabbia, Naderi contrappone la morte e la desolazione alla speranza che emerge in un finale visionario, in cui pesci e acqua scaturiscono dalle dune: un cinema di sensazioni, fisico e immediato, che non si preoccupa di raccontare una storia, ma si affida a ritmi visivi privi di monotonia.
Dopo "Il Corridore", un altro film “di paesaggio”.
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