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Un'automobile bianca attraversa un paesaggio di periferia urbana fatto di colline polverose. Al volante c'è un uomo sui cinquant'anni, il signor Badii, che ha deciso di uccidersi e sta cercando qualcuno disponibile a coprire di terra la tomba che si è scavato, o a riaccompagnarlo a casa, nell'ipotesi di un ripensamento. Badii incontra varie persone: un giovane soldato curdo che si spaventa e scappa; un seminarista afgano che cerca di dissuaderlo ma poi desiste. Infine, un anziano che lavora al museo di storia naturale lo segue più a lungo, gli ricorda le bellezze della vita, il sapore delle ciliege, la luna, la pioggia, ma alla fine accetta di aiutarlo e si danno appuntamento per la mattina dopo. Il suicidio non arriva, e il signor Badii rimane ad osservare se stesso per quello che poteva succedere e non è successo. |
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Nella periferia di Teheran un uomo gira alla ricerca di qualcuno che lo aiuti a suicidarsi: lo trova, ma la ricerca ne mina la convinzione nel gesto.
Con una leggerezza disorientante Kiarostami ci offre il suo personaggio alla lucida e serena ricerca della morte, senza spiegarci cosa lo ha spinto a prendere questa decisione.
Troviamo Badii alla guida della sua automobile che osserva la gente ai lati della strada, per lo più braccianti alla ricerca d’un impiego, nella speranza di trovare la persona giusta per compiere un lavoro estremamente facile e difficile al contempo: ricoprire il suo corpo di terra all’alba del giorno seguente.
Dopo essersi scontrato con la paura di un giovane soldato e con i principi di un seminarista, riceve la disponibilità di Bagheri, più vecchio di lui, che aveva a sua volta percorso il proprio viaggio verso il suicidio ma s’era arrestato di fronte ad una ciliegia, alla riscoperta del gusto delle cose, della natura, della vita.
Non importa sapere se Badii si sia lasciato convincere dalla vitalità bucolica del suo interlocutore, perché entrambi non esistono: questo il finale, non una novità nella cinematografia dello stesso Kiarostami e più in generale in quella iraniana. Il perché di questa scelta è più nella tradizione di un cinema sempre teso a sottolineare la propria natura di finzione che nella volontà del regista di non esprimere il proprio punto di vista, peraltro palesato nel discorso di Bagheri.
Al centro del film vi sono due elementi soltanto, l’animo di Badii e lo spettatore. Il primo s’identifica perfettamente col paesaggio, mai così funzionale: desolato, arido, costantemente percorso da camion che trasportano e rovesciano terra, in un simbolismo quasi esagerato.
La macchina che gira tra le colline e ripetutamente scompare nella tortuosità del percorso sembra inabissarsi nei gironi infernali per poi uscirne, e far ritorno in città, solo quando l’aspirante suicida prende per la prima volta in considerazione l’ipotesi di un ripensamento.
Lo spettatore, per sua natura da sempre testimone delle vicende filmiche, ha questa volta un ruolo attivo: il suo ingresso in prima persona nel film è determinato dalla scelta di fermare, in ogni dialogo, la cinepresa sul volto d’uno solo degli interpreti; i suoi pensieri si mescolano con quelli dell’interlocutore, fisicamente assente dall’inquadratura, e senza rendersene conto si trova in bocca le sue parole, venendo così costretto a confrontarsi prima con la diffidenza dei manovali, poi con la paura del soldato, con gli ideali del seminarista e con la sorprendente vitalità di Bagheri. Il vivere costantemente le diverse reazioni possibili davanti ad un desiderio di morte costringe lo spettatore ad una riflessione che non viene volutamente chiusa dal finale del film: non sulle motivazioni del suicidio, se ne valga o meno la pena, né sul suicidio in sé, ma sulla possibilità di aiutare un uomo a concluderne la preparazione; seppellire un uomo già morto non è ucciderlo, né aiutarlo in alcun modo, ma accettare di seppellirlo vuol dire porre termine ai dubbi che lo assalgono durante la sua ricerca di morte.
Come ogni personaggio, anche lo spettatore è obbligato a chiedersi se aiutarlo o meno a morire. Ma non è obbligato a rispondersi. |