Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Recensione: Eros

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Eros
titolo originale Eros
nazione Francia / Italia / Lussemburgo / Cina / U.S.A.
anno 2004
regia Michelangelo AntonioniSteven SoderberghWong Kar-wai
genere Erotico
durata 109 min.
distribuzione Fandango
cast R. Downey jr. (Pubblicitario) • A. Arkin (Psicanalista) • E. Keats (Donna dei sogni)
sceneggiatura W. Kar-waiM. AntonioniT. GuerraS. Soderbergh
musiche P. RabenE. AntonioniV. MilaniC. O'FarrillT. Puente
fotografia C. DoyleM. PontecorvoP. Andrews
montaggio W. Chang Suk PingC. Di MauroM. Bernard
media voti redazione
Eros Trama del film
Tre cortometraggi diretti da Wong Kar-wai, Steven Soderbergh, Michelangelo Antonioni. In "La mano", ambientato nella Shanghai del 1963, Chang, un apprendista sarto, è sedotto dalle misure del corpo di Miss Hua, un'affascinante e avvenente prostituta d'alto bordo. In "Equilibrium" siamo a New York nel 1955: un pubblicitario è ossessionato dal sogno ricorrente di una donna che conosce ma che non riesce a ricordare al risveglio. Ironia della sorte, il suo psicanalista durante la loro prima seduta di analisi viene continuamente distratto da una donna attraente che spia dalle finestre dello studio. Infine in "Il filo pericoloso delle cose", ambientato nella Toscana odierna, una coppia di quarantenni in crisi, decide di fare una breve gita al mare per ritrovare un po' di magia nel loro rapporto. La passione del marito, invece, sembra risvegliarsi grazie all'incontro con una giovane donna dallo spirito libero.
Recensione “Eros”
a cura di Andrea Peresano  (voto: 6)
"Visione del silenzio…". Così inizia a cantare Caetano Veloso, quasi a sottolineare che la sfera dell’erotismo è qualcosa di cui si tace, non si parla, di cui a volte si ha paura. Pensieri, voglie e fantasie che rimangono celati. La sua musica accompagna i disegni di Lorenzo Mattotti ispirati dalle opere dei registi introducendo e separando i tre capitoli che compongono il progetto voluto dallo stesso Antonioni e di cui questo film è anche celebrazione. Ci viene raccontato l’eros attraverso la loro arte e la loro personale visione, quasi a comporre un’ode all’erotismo di cui i tre registi hanno scritto le strofe e Veloso e Mattotti il ritornello.
Apre la serie "Il filo pericoloso delle cose" di Michelangelo Antonioni.
Il regista ci situa bruscamente nel mezzo dell’azione, fra una coppia in crisi (Christopher Bucholz e Regina Nemni) e senza più nulla da dirsi. Li accompagniamo in un breve viaggio carico di simboli e simbolismi, attraverso bivi, passaggi angusti, luoghi ameni e incontri quasi omerici verso la separazione definitiva quando la donna uscirà di scena pulendosi dei residui del fango in cui l’uomo l’aveva portata. Lui cercherà quindi nell’altra figura femminile (Luisa Ranieri), nell’altra farfalla presente sulla spiaggia, un’avventura, un rapporto fugace, eccitato dal nuovo e prosperoso corpo che ancora riesce a ridere di cuore ed entrerà nel suo “caos” di giovane donna. L’abbandono è definitivo e l’uomo lascia così quel mondo femminile, dominato dalle due dee che lo sovrastano dall’alto delle loro torri e che, rimanendo alla fine uniche figure sullo schermo, chiudono un ipotetico cerchio di vita incontrandosi. Interessante il gioco di piani nelle stupende inquadrature e la natura imponente e maestosa come il mare o pulsante di vita come i cavalli al galoppo che circonda e avvolge i corpi degli uomini. Antonioni ritorna sulle tematiche dell’incomunicabilità, come da sempre fa nelle sue opere, ma la sua storia, visivamente carica di significati e rimandi e paragonabile ad un quadro rinascimentale, si perde dietro a immagini spesso complicate o apparentemente inspiegabili e irreali in cui i personaggi risultano meri attuanti privi di spessore, anche per la recitazione mediocre degli attori, di cui si salva solo in parte Luisa Ranieri È giusto pensare quanto il comportamento reale degli uomini sia illogico e anche come l’erotismo sia legato alla sfera dell’immaginario e a fantasie anche semplici e dirette come una donna che cavalca uno stallone sulla spiaggia, ma in definitiva lascia un po’ perplessi e insoddisfatti.
Il frammento centrale è di Steven Soderbergh: "Equilibrium".
È la perdita di equilibrio da parte di un uomo, un pubblicitario (Robert Downey Jr.), attorno cui ruota l’intera storia. Equilibrio inteso come sicurezza nei propri sentimenti, messi in discussione da un sogno che lo tormenta e lo assilla ma di cui l’oggetto del desiderio non è chiaro come dovrebbe essere. Equilibrio anche come sconcentrazione e conseguente improduttività sul lavoro quando il vistoso parrucchino di un collega lo distrae. Lo stesso psicoanalista (Alan Arkin) che lo dovrebbe aiutare, quasi contagiato dal paziente, è attratto e ipnotizzato da qualcosa al di fuori dello studio, lontano nel mondo esterno, che poi non sarà altro che un persona e probabilmente una donna. Soderbergh è il più sottile e vago dei tre e per questo il meno erotico. Il suo è un sogno privato e vagamente focalizzato in cui l’eros dobbiamo cercarlo con il lanternino. Anche lui come Antonioni crea un microcosmo con al centro la figura maschile del pubblicitario presentandone le relazioni basilari da cui è circondato: il collega di lavoro e il suo psicanalista, che coincidono nella persona di Arkin, e la compagine femminile della moglie e dell’amante immaginaria che sono poi la stessa figura, l’attrice Ele Keats, come se in uno stadio di dormiveglia il protagonista confonda persone e cose, tanto che le stanze all’interno delle quali è claustrofobicamente ambientata la storia alla fine si sovrappongono e si confondono l’una con l’altra. Tutto è pervaso di un sottile umorismo, soprattutto negli incontri fra gli uomini, ma se Antonioni sembra dipingere un quadro Soderbergh si diverte a disegnare un fumetto sia nel taglio delle inquadrature che nell’utilizzo che fa dei colori, caratterizzando ogni filo della storia, sogno, ricordo o realtà, con tratti cromatici diversi, e intrecciandoli poi a suo piacimento, senza che lo spettatore rischi di perdersi nei cambi.
Chiude la trilogia "La mano" di Wong Kar-wai.
Il regista cinese ci regala la più riuscita fra le tre celebrazioni dell’erotismo rinchiudendo nel minimo spazio concesso la più vivida evocazione. La sua è una storia completa e reale e al tempo stesso chiara e semplice. Abbandona la chiave simbolistica scelta da Antonioni o le atmosfere oniriche di Soderbergh e ci regala l’eros con il rapporto fra una prostituta d’alto borgo (la bravissima Gong Li) e il suo sarto personale (Chang Chen). Tutta la storia ci viene raccontata attraverso gli occhi del giovane apprendista rassegnato alla pura venerazione della donna. Non tenta mai di raggiungerla ma la aspetta, a volte inutilmente, e la segue attraversare fortuna e miseria, prosperità e decadenza anche fisica, come la finale perdita di ogni dignità e la malattia, andando oltre l’immagine reale, idealizzando il suo oggetto d’amore, la donna per cui confeziona vestiti. La figura femminile oscilla a tratti fra un mero oggetto di desiderio da usare a piacimento, su cui sfogare i propri istinti, e una divinità bellissima e crudele davanti cui prostrarsi e da cui attendere la ricompensa anche solo di un cenno di approvazione. Il contatto fra i due non è quasi mai diretto, sempre mediato da persone o cose, e le pareti e le stoffe che separano l’innamorato dal suo amore vengono superate solo nei momenti in cui lui le posa le mani sul corpo, quando cioè deve prenderle le misure e nelle due occasioni in cui sarà la donna a toccarlo, ovvero l’inizio e la fine del loro rapporto. Kar Wai è raffinato, elegante, ed è la sua storia a rimanere nel cuore e nella testa alla fine della visione quando suonano per l’ultima volta le note di Veloso.
In conclusione è giusto riflettere su di un fatto. Qui è rappresentato un erotismo puramente maschile, di cui la donna è l’oggetto, conquistato o venerato, sognato o disprezzato, ma sempre dal di fuori e non è mai attraverso di lei che guardiamo e sentiamo, cioè non ci viene mai presentata una visione femminile dell’eros togliendo così al significante la metà del suo reale significato.
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