Dal romanzo “Mine Ha-Ha”, scritto da Frank Wedekind nei primi anni del ‘900, nasce un film che, decontestualizzato, ha l’aria di essere una metafora dei campi di concentramento; ricollocato nel suo giusto tempo, ne è sinistra anticipazione. La caratterizzazione istruttrici-kapò ed educande-prigioniere, dettata da una sceneggiatura di cent’anni posteriore al libro (Alberto Lattuada, fra gli altri), conferisce alla prima parte del film un’atmosfera da thriller, nell’attesa che qualche atroce crimine venga svelato. La piega che prende la narrazione contraddice le aspettative createsi, i delitti devono ancora essere compiuti, i presunti misteri si rivelano inezie.
Nell’ultima parte il film smette completamente di stupire (non che prima lo facesse, ma adesso diventa prevedibile) con l’uccisione di Melusine, la scelta della première étoile, l’incursione notturna nella camera di Gertrude. Ma è il finale a lasciare interdetti: dopo l’incendio si chiudono, brutalmente e senza il tempo di metabolizzarle, tutte le situazioni in sospeso. Il racconto precipita così in una spirale di violenze la cui crudezza delle immagini non è motivata dalle premesse, il thriller psicologico diventa horror, col classico finale assurdo che lascia Hidalla ben dentro l’incubo, e lo spettatore ben al di fuori, senza nemmeno la voglia di chiedersi che cosa, il film, significhi. |