Solo ventiquattro giorni di riprese per girare una delle settimane più divertenti delle commedie contemporanee. Daniel Levy, autore anche della sceneggiatura con Holger Franke, riesce a fondere una regia imprevedibile ad una storia normale, interessante e surreale, proprio perché normale. In fondo nulla più del quotidiano risulta spesso improbabile e grottesco.
I personaggi hanno energia e stoffa, nessuno è banale, trovano il modo di esprimersi, di dichiararsi, di dimostrare intelligenza e ironia, con delle smorfie piene che riempiono l’immagine spesso più di qualsiasi recitazione. Come non affezionarsi e non schierarsi accanto a Jacob Zuckermann, detto Jaeckie Zucker, uomo bugiardo, geniale e con il biliardo nelle vene, riesce a imprimere ad ogni situazione uno sprint convincente, una trovata, un finto infarto capace di fargli vivere due vite parallele. Lui, comunista e grande fallito della riunificazione odia il fratello Samuel “dell’altra parte del muro”, serio, severo e fervente ebreo ortodosso, ma capace di far ridere l’intera sala per più di un minuto, in una delle scene più esilaranti del film, un balletto post aspirina “truccata” che vale da solo il prezzo del biglietto.
Il film si muove leggero in uno sfondo delicato come la travagliata Berlino post muro, colma di locali scarni e sentimenti contrastanti. Ha la capacità di coinvolgerti e farti anche pensare, l’ironia ebraica è del tutto positiva e assolutamente costruttiva. Levy riesce ad intrecciare le rispettive famiglie, i loro incontri/scontri, le loro rivelazioni, i pensieri nel medesimo stile con cui il grande Billy Wilder disegnava le sue mitiche commedie.
La regia, suo pregio, non è mai affettuosa o smielata, non ha assolutamente bisogno, lo spettatore si diverte in crescendo dall’inizio alla fine. |