Per tutti i gusti, purché dolce. Non c’è sostanza maggiormente degna di rappresentare la commedia e il suo lieto fine del cioccolato.
Vianne Rocher (il nome parla da solo) ci trasporta nel paese dei balocchi, delizia per gli occhi e croce per la salute: ma è una favola, nulla più, e allora è giusto lasciarsi trasportare dai sensi e fare proprie con gli occhi le piramidi e le statue di cioccolato, desiderandone non una ma tutte, fino a nuotarci dentro come Paperone nell’oro, come il conte di Reynaud alla fine, biasimato quasi unicamente per la sua astinenza.
L’universalità rappresentata dal cioccolato, simbolo prima che alimento, è strettamente legata al nomadismo di Vianne: buoni e cattivi sono divisi non, come vorrebbe il conte, dall’amore per Dio, ma da quello per il cioccolato. Questo punto di vista permette ad un finale all’insegna del buonismo, legittimato dall’atmosfera favolistica, di essere interpretato trasversalmente ed acquisire quel po’ di ‘scorrettezza’ che ne rende più forte il sapore.
Dove finisce il cioccolato, finisce anche il film: i buoni si riconoscono tra loro, creando da subito una setta a parte, impedendo a questo modo qualsiasi confronto con le tesi antagoniste. Devono averla vinta su tutta la linea, e poco importa se il messaggio di tolleranza sia condivisibile, la partita non c’è mai.
I personaggi di contorno non funzionano, tra stereotipi e mancanza di idee: si salva Roux, che da metà film in avanti assurge quasi a co-protagonista, grazie al ruolo insolito ed al fascino del periodo d’oro di Johnny Depp.
La Binoche non è più la splendida attrice di Godard o ancora di Kieslowski, ma la sua ‘consapevolezza scenica’ ed il ruolo battagliero bene assecondano il suo sguardo indurito dalle prime rughe e dall’abitudine.
Alla fine, morale o no, Chocolat riempie gli occhi, rallegra l’anima e nulla più. Per essere cinema, è più che sufficiente. |