Giovani divorati dalla noia, impietriti di fronte agli eventi che misurano la loro impotenza, intolleranti nei confronti di tutto ciò che rappresenta il diverso, mentre, attorno a loro il mondo scorre immobile, con i soli schermi televisivi perennemente accesi a "bombardarli" di immagini ed a mostrare una realtà circostante di certo non più incoraggiante.
L'ex professore di filosofia, Bruno Dumont, si rifà alla visione che del Cristo ci tramanda la pittura fiamminga: un Cristo contadino, uomo fra gli uomini, per narrare la storia di un uomo come tanti; un ragazzo con le sue emozioni, le sue gioie, i suoi dolori.
"La Vie De Jesus", ribattezzato dalla distribuzione italiana con il titolo sicuramente più appropriato "L'Età Inquieta", è un'opera prima estrema, sotto diversi punti di vista; una rappresentazione quasi documentaristica della vita dei giovani di Bailleul e della provincia in generale.
Dumont esplora volti e animi dei suoi personaggi, seguendoli in silenzio fin nell'intimità con una scelta decisa di non risparmiare nulla allo spettatore, addentrandosi spesso, sia pure in modo "asettico", nel campo del sesso più esplicito, sfiorando a volte l'eccesso e ricorrendo per questo a controfigure.
L'accurata fotografia, gli eleganti movimenti di macchina e qualche classica "dissolvenza al nero", sono alcuni tra elementi di cui il regista si "arma", per mettere in scena fatti di cronaca con un linguaggio molto stilizzato. Dapprima Dumont fissa sulla pellicola la noia, l'accidia, i riti di una vita sempre uguale a se stessa, poi, senza emettere sentenze morali, ci mostra come devastazione civile e culturale produca bestialità, ignoranza, violenza, razzismo e omicidio.
Molto del merito va agli straordinari interpreti, esordienti e giovanissimi, che danno un tono e un senso di verità raramente riscontrabile.
In un film dove la mancanza di ideali, valori, da parte di ragazzi soppiantati da una noia che tutto avvolge, sono il pane quotidiano, viene da chiedersi se il regista è riuscito ad addentrarsi davvero nel profondo disagio dei giovani di cui ci parla.
Forse l'unico rammarico, è stato appunto quello di aver voluto parlare tramite i protagonisti, di tutte quelle inquietudini che fanno del titolo una realtà, senza addentrarsi mai fino in fondo in nessuna delle tematiche affrontate, ma al contrario forse troppo spesso il regista si limita a narrare, incatenando i "suoi" adolescenti ai loro atti, sentimenti o responsabilità che non sentono di avere.
Soltanto in un finale "bressoniano", con Freddy finalmente cosciente di sé come persona morale, Dumont indica allo spettatore una visione in fondo ottimistica, donando al pubblico il suo punto di vista.
Avremmo gradito un maggiore "occhio critico" oltre che indiscreto, tra le righe di una pellicola che priva di ciò, rimane per quasi tutta la sua durata fine a se stessa, rientrando comunque meritatamente tra tutte quelle opere di cui il Cinema ha decisamente bisogno.
Camera d’Or a Cannes (1997).
Premiato al festival di Taormina, Chicago, Londra e Valencia. |