Colpo d’ala del cinema iraniano questo "Baran", che dimostra una regia accortissima sia quando si tratta di girare in un palazzo in costruzione, sezionando e moltiplicando gli spazi così da far sembrare il palazzo un labirinto, sia quando è la volta di tratteggiare un amore platonico tra due adolescenti destinato alla fine a risolversi in un nulla di fatto, con la giovane fanciulla che in partenza per l’Afghanistan si cala il burka sul volto così da conferire alla distanza mantenuta per tutto il film dal giovane e desideroso Lateef un connotato di eternità indissolubile. Al giovane non rimarrà altro da fare che fissare l’impronta del piede della giovane impressa in uno spietato acquazzone.
Tra calce e cemento, Majid Majidi sa anche delineare non solo un percorso visivo con al centro la commedia umana di un cuore infranto, ma sa anche edificare un quadro di solidarietà tra iraniani e afgani di ammirevole compassione e precisione. Il cinema iraniano ci ha abituato, e anche "Baran" non si dimentica di ricordarlo, che una società profondamente iconoclasta com'è quella iraniana, coltiva al tempo stesso uno stupore dello sguardo senza eguali.
Ecco allora il centro visivo del film ruotare attorno al giovane Lateef, continuamente teso ad esplorare lo spazio che lo circonda, a tagliare in lungo e largo l’intero palazzo in costruzione nei suoi più reconditi spazi, processo alla fine del quale è posto quel punto di massima conoscenza concettuale/sentimentale capace di andare oltre la semplice apparenza.
Miglior film al Festival di Toronto (2001). |