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Recensione: Oro rosso

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Oro rosso
titolo originale Talaye sorkh
nazione Iran
anno 2003
regia Jafar Panahi
genere Drammatico
durata 97 min.
distribuzione Mikado Film
cast H. Emadeddin (Hussein) • K. Sheisi (Ali) • A. Rayeji (Sposa) • S. Vaziri (Gioielliere)
sceneggiatura A. Kiarostami
musiche P. Yazdanian
fotografia H. Jafarian
montaggio J. Panahi
media voti redazione
Oro rosso Trama del film
Teheran. Hussein, che di professione consegna pizze a domicilia, entra in possesso di una borsa contenente una ricevuta per l'acquisto di una collana in una gioielleria dei quartieri alti. Ma il proprietario gli impedisce di entrare nel suo negozio a causa degli abiti che indossa e lo umilia. Questo atteggiamento scatena la reazione di Hussein.
Recensione “Oro rosso”
a cura di Andrea Olivieri  (voto: 7,5)
È noto ormai il rapporto intimo, sincero che la messinscena del cinema iraniano contemporaneo stabilisce con la realtà, intesa come pura quotidianità.
In tal senso le scelte stilistiche del cinema iraniano sono volte a svelare gli aspetti più nascosti e minimali degli esseri umani, "sorprendendo" le emozioni spontanee e gli sguardi ininfluenti, l’anima delle "persone" in cui si imbatte, secondo un preciso registro formale.
Lo scopo rimane sempre quello di muoversi quanto più fedelmente nell’orizzonte del reale, forzando appena in una direzione o in un’altra la "storia" e le azioni dei personaggi, per attestare un proprio significato morale, che molto spesso si commuta nell’indagine programmaticamente meta-cinematografica.
Alla fine, si rimane sempre positivamente colpiti dalla capacità di sviluppare una messinscena integra e incontaminata, senza assecondare derive sentimentali o concessioni drammatiche: spesso si tratta di regie statiche e essenziali che evitano il ricorso alla camera a spalla, e rinunciano a pedinare nervosamente la realtà, lasciando che sia la vita a entrare e uscire dal campo visivo.
Dopo "Il palloncino bianco" e "Lo specchio", dittico meta-cinematografico sull’infanzia e le prepotenze dei grandi, e il documento-denuncia sulla condizione delle donne ("Il cerchio"), Jafar Panahi ritorna con "Oro rosso" sulle problematiche sociali di un Iran ancora rigidamente teocratico, e spaccato dalle vaste disparità sociali della popolazione.
E’ in questo contesto che lo sceneggiatore Abbas Kiarostami cala il personaggio di Hussein, grassoccio venditore di pizze nei quartieri alti di Teheran, fiacco e silenzioso, buono e pieno di orgoglio nascosto: Panahi lo segue con pudore e discrezione in alcuni momenti della giornata, fin quando l’umiliazione subita dal negoziante di una gioielleria non lo spingerà ad un gesto estremo e irreparabile…
Lo sguardo di Jafar Panahi sulla realtà della popolazione della capitale dell’Iran è lucidissimo, pulito e caratterizzato da un atteggiamento marxista, svuotato dagli ideologismi del comunismo e molto più vicino alla visione pasoliniana di un sottoproletariato ormai inquinato che cerca disperatamene di trasformarsi in una piccola borghesia senza futuro e spessore.
Hossein è continuamente respinto, rispedito nel (suo) ghetto, umiliato.
E’ un individuo tutto interiore, che parla poco e pensa molto.
I suoi occhi arano il mondo, lo sezionano e lo decodificano, ma le sue "azioni" non trovano mai uno sfogo, un senso plausibile.
Teheran appare un universo in continua espansione in cui si contrappongono un sistema esistenziale concentratissimo e pulsante, quello dei ceti non ricchi, e un buco nero estraneo al sociale, quello della classe danarosa.
In questo contesto, la macchina da presa di Panahi con stile equilibrato e pacato esplora la dimensione sociale, politica ed umana di una cittadinanza che nel mezzo di questa "divisione", si trova a dover sopravvivere tra censure e limitazioni della libertà personale.
Il protagonista cerca il riscatto, ma lo fa in modo maldestro e poco efficace.
Vuole sposare la sua amata, dare alla sua fidanzata una vita dignitosa, organizzare un matrimonio che non raffiguri impietosamente la loro condizione di sottoproletari.
Ed allora, le continue e grottesche visite alla gioielleria dei loro sogni, sembrano quasi un modo inconscio per costruire tessera dopo tessera il mosaico dell’odio, della lotta di classe "senza se e senza ma".
La conclusione della vicenda è l’unico possibile esito di questo percorso mentale dentro la voragine spaventosa dell’odio, nella consapevolezza che mai nessuno sforzo riuscirà a colmare la differenza.
Dunque, non c’è altro da fare se non marcare ancora di più questa differenza, amplificarla fino alle estreme conseguenze.
Panahi propone un cinema distaccato e "antipsicologico", che alterna momenti di pura (e purificatrice) contemplazione del mondo a momenti decisamente meno ispirati, senza affezionarsi mai ai suoi personaggi, lasciandoli stranamente incompleti.
Piccole essenziali pennellate, una "lentezza" di narrazione che non è sinonimo di calo di tensione, di superfluo, al contrario.
Il cineasta apre uno spiraglio sugli spazi interni e il cerchio non è perfetto, il cinema non è più al riparo dagli sguardi esterni e quindi liberi da regole sociali.
Anche quel palloncino bianco degli esordi diventa un involucro imperfetto che svolazza oggi sulle ombre nere dei veli e di una società spaccata in due tra miseria e umiliazione.
Le immagini vengono svuotate da qualsiasi senso esterno e colte da uno sguardo attraverso il quale è il mondo stesso a muoversi su se stesso in direzione del suo continuare semplicemente ad essere.
Dell’immagine non resta che la sua nudità, la sua superficie quanto mai profonda, la sua pelle, ciò per cui ciascuna immagine diventa singolare e attira su di sé uno sguardo, un desiderio, una repulsione, un assenso, un rifiuto, una ferita, una gioia.
E la vita...non continua, si ferma all’incipit, scivola lentamente dallo schermo con una pistola puntata alla tempia.
Premio della Giuria al Festival di Cannes 2003.
Commenti del pubblico







Ultimi commenti e voti
Utente di Base (38 Commenti, 21% gradimento) glauco1 24 Febbraio 2015 ore 18:29
2
complimenti a Inarritu! oscar meritati!
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