Prima di abbandonarsi al piacere puro, al godimento del cinema allo stato brado che procura "Kill Bill 2", bisogna fare un piccolo sforzo: immaginarselo com'era stato concepito, incollato al Volume 1, un'opera unica, conseguente e compiuta.
Non interesserà allora tanto scoprire gli ultimi sviluppi della ormai mitica vendetta della Sposa; non solo perché la faccenda non è proprio dissimile da quella di tutti i western, ma perché è il "come", secondo le buone tradizioni, a contare.
Nel come un film possa mutare clamorosamente di pelle. Non più quella, certo eccitante, delle sfrontate coreografie cinetiche ispirate alle arti marziali cinesi, ai cartoon giapponesi, all'insolenza alla Bruce Lee in salsa rumba gitana.
Ma nei tempi sorprendentemente "stirati", dove ritroviamo i leggendari (meno divertenti che in "Le Iene" o "Pulp Fiction") dialoghi, gli accenti morriconiani, la gestualità, gli spazi di un Sergio Leone.
E, addirittura, una attenzione all'intimità dei rapporti fra i personaggi: scavati nelle interpretazioni degli attori, prima fra tutte quella di una Uma Thurman, alla quale il regista dedica una relazione amorosa del tutto particolare.
Apparentemente meno spettacolare del primo episodio, "Kill Bill 2" iscrive le schegge impazzite di una incontenibile libertà espressiva all'interno di una proiezione/produzione assolutamente sotto controllo.
Siamo sempre, ovviamente, negli "eccessi", ma come attraversati da una sorta di affettuoso sentimentalismo, che gli fa parlare addirittura di maternità; dalla voglia di riprendere la ragnatela di tutte quelle inverosimili tracce per approfondire un discorso iniziato precedentemente. Tutto ciò sarà pure contraddittorio e, a seconda degli umori, confortante o deludente.
Tarantiniano, l'aggettivo è già stato coniato da tempo.
Presentato fuori concorso al 57mo Festival di Cannes (2004). |