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Recensione: Una cosa chiamata felicità

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Una cosa chiamata felicità
titolo originale Stestí
nazione Germania / Repubblica Ceca
anno 2005
regia Bohdan Sláma
genere Commedia
durata 100 min.
distribuzione Bim Distribuzione
cast T. Vilhelmova (Monika) • P. Liska (Tonik) • A. Geislerova (Dasha) • M. Daniel (Jara) • Z. Kronerova (Zia) • B. Polivka (Soucek)
sceneggiatura B. Sláma
musiche L. Soybelman
fotografia D. Marek
montaggio J. Danhel
uscita nelle sale 12 Maggio 2006
media voti redazione
Una cosa chiamata felicità Trama del film
Monika, Tonik e Dasha sono cresciuti insieme in un quartiere popolare della periferia di una piccola città industriale. Ora sono diventati adulti e ognuno di loro è diviso fra desideri, solitudine e fallimenti. Il fidanzato di Monika trova un buon lavoro e parte per l'America, lei lo aspetta, con la speranza che lui la inviterà a raggiungerlo. Tonik è scappato dalla sua rigida famiglia e convive con sua zia, una donna eccentrica. Insieme combattono ogni giorno per difendere la loro fattoria dalle industrie che si avvicinano minacciose. Fragile, nervosa e tendente alla depressione, Dasha ha due figli piccoli e un amante sposato e nullafacente. Nessuno di loro lo ammetterebbe mai, ma i tre amici cercano negli altri quello che loro non hanno ed è proprio su questo bisogno che si regge un'amicizia complessa, difficile e appassionata.
Recensione “Una cosa chiamata felicità”
a cura di Francesco Alfani  (voto: 8)
Felicità: così Bohdan Sláma ha chiamato il suo film. Perché? Una risposta fra le altre è forse questa: la felicità sta in ogni storia che si racconta, ma può sfuggire ad uno sguardo e ad un cuore distratti. Il regista raggiunge il suo intento se riesce, raccontando una storia, a far afferrare, assaporare la felicità, che essa racchiude, al suo spettatore. La felicità può essere grande, come un amore nutrito della lontananza, una amicizia che dura tutta una vita, un legame fraterno che si ravviva quando sembrava già consumato, ma può essere anche piccola: un bicchiere di latte, una partita di pallone, il cane che rincorre un treno. Bohdan Sláma è, da questo punto di vista, uno straordinario narratore: sa parlare senza dover ricorrere all’ausilio di una fotografia scintillante, e commuovere senza usare praticamente nessuna colonna sonora, né soprattutto un soggetto forzatamente ricco di pathos. Geniale ad esempio il ritratto di Dasha: al regista basta un indizio, farla entrare in scena con i capelli colorati di nero, per avvertirci del suo sprofondare nella depressione e nella follia. E gli bastano gli occhi azzurri di Monika per farci vedere il suo animo profondo e limpido come il mare. Nessun personaggio è descritto tirando via; hanno tutti una rotondità e una forza comunicativa eccellenti (compresi quelli minori), e l’empatia che generano nel pubblico è ottenuta contando non sui dialoghi, pochi e recitati piano, ma sulla capacità evocativa delle immagini. Gli stessi oggetti inanimati diventano in quest’ottica essenziali alla rappresentazione. La macchina di Dasha e Jàra, che piomba al compleanno del figlio (nera anche questa), è una nuvola scura di pioggia che sembra incombere sui commensali; le mollette che reggono i panni ad asciugare schizzano via quando la madre di Moni li stacca con violenza, come lampi di rabbia che squarcino la scena. Oppure, il regista si affida alla semplicità, come per la cena del Natale, dove la cornice, più che mai risaputa, non vincola la sostanza, puramente originale nel senso dell’ispirazione artistica che le dà vita. Questa bella rappresentazione non ha una chiave di lettura particolare; essa, la mimesi della vita, è il senso e il significato del film. Non un film visivamente innovativo, ma un film di cuore, che si apre con il dolce strimpellare di una chitarra e si chiude con un sorriso.
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