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Recensione: Ebbro di donne e di pittura

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Ebbro di donne e di pittura
titolo originale Chihwaseon
nazione Corea del Sud
anno 2002
regia Im Kwon-taek
genere Drammatico
durata 117 min.
distribuzione Bim Distribuzione
cast C. Min-sik (Jang Seung-up)
sceneggiatura I. Kwon-taek
musiche K. Young-dong
fotografia J. Il-sung
montaggio P. Soon-duk
media voti redazione
Ebbro di donne e di pittura Trama del film
La vita quasi leggendaria di Jang Seung Ub, un grande pittore coreano vissuto fra il 1843 e il 1897. Un'infanzia povera, la maturità artistica segnata da rinunce sentimentali e da tumultuosi cambiamenti storici. Un uomo collerico, ubriacone e donnaiolo, ma in cerca dell'ispirazione più vera.
Recensione “Ebbro di donne e di pittura”
a cura di Andrea Olivieri  (voto: 7)
Im Kwon-Taek filma l'esistenza di Jang Seung-up detto Oh-won, grande pittore di paesaggi coreano vissuto verso la fine del XIX secolo, come percorso esemplare di un artista verso la compiutezza dell'esistenza tramite il fare artistico.
L'arte nel suo farsi, non il personaggio Oh-won o i suoi atti, questo è il fulcro tematico dello splendido "Ebbro di donne e pittura".
Il film segue la linea cronologica della biografia, ma la nega nello stile.
Perchè se Oh-won è visto nel suo percorso esistenziale dalla giovinezza alla morte, è anche vero che i vari aneddoti mostrati si legano non narrativamente, ma concettualmente.
Aneddoti, dunque, fatti la cui plausibilità sarebbe tutta da dimostrare, mito e leggenda più che azioni concrete, che Im Kwon-Taek può organizzare come una catena di frammenti aventi di per sè una forte carica emblematica ed universale e che, legati tra loro, sgranano un discorso teorico densissimo sull'arte come pensiero illimitato, dissoluzione dello sguardo e non solo di quello.
Nel film si srotolano due cronologie: quella della drammatica storia coreana del periodo, che rimane sempre sullo sfondo con le sue vicende e il travagliato passaggio dall'influenza cinese al dominio giapponese nel 1894-95.
E quella personale, quasi quotidiana di Oh-won, una temporalità, quest'ultima, innestata più sul ritmo armonico delle stagioni, che su uno svolgersi di eventi.
Inquadrato spesso in interni ordinati e dalla spazialità rigidamente geometrica, il pittore è prima di tutto un corpo, satiresco e sgraziato quanto vitale, che nega quella geometricità in nome della visione.
Quando anche il suo maestro Yoo-sook lo spinge ad abbracciare un modo di dipingere più realistico e definisce la sua arte come una eco di "sentimenti rudimentali", Oh-won non recede dalla sua scelta verso un'arte che non sia equilibrio spirituale, apertura alla polifonia del mondo tramite la calligrafia lineare del disegno.
Una visione che ai nostri occhi potrebbe sembrare tragicamente romantica, ma che il tono registico rende come pacificata, dolcemente malinconica, purificata nella forma.
Il film può permettersi anche di essere parecchio scritto, pieno di massime sulla pittura, sul suo rapporto con la letteratura, con l'ebbrezza, con l'amore e infine con la particolare religiosità di Oh-won, senza scadere mai nella sentenziosità perché la qualità filosofica di ogni singolo aforisma, di ogni singolo aneddoto si incarna nella qualità visuale della pellicola.
Tutto concorre a rendere questa tensione visualmente fusionale verso la natura da parte del pittore.
La perfezione grafica e spaziale di ogni singola inquadratura, la fotografia luminosissima, dalla consistenza atmosferica, tattile nell'addensarsi su tessuti, piante, volti, il tutto senza mai cadere nella trappola del pittoricismo, le aperture paesistiche, che, relativamente rare nel film, sono squarci lancinanti di paesaggio interiore, esempio di una sofferta simbiosi tra artista e mondo come non si vedeva dal Kurosawa di "Sogni".
Non ultima la prestazione di Choi Min-shik, che trasforma lentamente il suo artista da satiro inquietante e sovversivo in un intellettuale di malinconica saggezza, struggente nella sua distanza dalle cose.
Il suo Oh-won è un artista irrequieto, che cerca caparbiamente di sublimare la sua carica espressiva nell'essenzialità della forma, il cui sbocco alla fine non può essere che la sparizione dell'artista nell'impassibile assolutezza dell'opera, come dimostra un finale di quieta e straziata bellezza.
Vincitore del premio per la Miglior Regia alla 55ma edizione del Festival di Cannes.
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