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In Marocco due adolescenti nel mezzo del deserto provano un fucile che il padre ha dato loro per tenere lontano gli sciacalli dalle capre, ma la pallottola sparata arriva molto più in là di quanto si sarebbero aspettati. A colpire una donna americana in crisi con il marito e in viaggio, su un autobus di un viaggio organizzato. La coppia ha lasciato a San Diego i figli che sono affidati ad una tata messicana che però non può mancare al matrimonio del figlio. Nel mentre in Giappone una ragazza sordomuta vive il disagio di un adolescenza particolarmente difficile. |
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Una ragazza giapponese, un ragazzo marocchino, una latina in mezzo ai gringos e un gringo in terra islamica: è questa la torre di Babele ideale che Inàrritu costruisce pezzo per pezzo spigolando da una parte all’altra del mondo. Una architettura ambiziosa, forse ancora più di quella dei suoi film precedenti, che tira in ballo il conflitto etnico e quello culturale, i problemi esistenziali, la dolorosa convivenza con l’handicap fisico; tutto ciò che può rientrare nella categoria di drammatico.
Non c’è quasi nulla di nuovo rispetto a “21 grammi”. Ancora una volta il regista messicano sceglie la struttura policentrica, porta avanti più storie contemporaneamente e allo stesso tempo cerca di tenerne i fili annodati, probabilmente più per sottolineare l’ironia della sorte che per suggerire una qualche visione “teleologica” dell’esistenza. Ancora una volta, poi, non ha timore di spingersi il più in là possibile sulla strada dello shock emotivo, cui sottopone lo spettatore per oltre due ore, senza praticamente mai un momento di sosta. Niente di nuovo, si potrebbe dire; e infatti questa è la prima riserva possibile rispetto a un regista che sembra troppo innamorato della formula che lo ha fatto apprezzare per poter sperimentare altre strade. E se pure questa ripetitività si potrebbe al limite legare a un discorso di scelta d’autore, altre riserve riguardano l’impressione complessiva ricavabile dalla pellicola. Non è in discussione l’ispirazione di Inàrritu, ma l’efficacia di un racconto che in certi casi sembra smisuratamente oltre ogni principio di equilibrio: i personaggi (per la verità tutti ben interpretati) sono perennemente sopraffatti dalla violenza e dal dolore, e con loro lo è a un certo punto anche la sospensione di incredulità che si richiederebbe al pubblico. Inevitabile, insomma, che all’ennesima sciagura l’insofferenza rischi di prendere il posto del coinvolgimento, soprattutto se alimentata del sospetto che lo stesso montaggio parallelo sia una scusa per sfruttare la quantità delle vicende drammatiche mascherando una carenza creativa. Nonostante tali limiti, “Babel” è un film discreto, girato con indubbia bravura; ne sono prova diverse sequenze ed immagini (la corsa di Amelia col suo vestito rosso nel deserto, la partenza dell’elicottero sotto gli occhi dell’intero villaggio, stupito di fronte a una cosa tanto lontana da ciò che esso conosce, il coloratissimo matrimonio messicano). La regia è affiancata da una altrettanto buona fotografia e da una bellissima colonna sonora. Brad Pitt non fa (troppo) il divo e per questo fa bella figura, ma Adriana Barraza gli ruba la scena in più di una occasione. |
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tentativo riuscito di mettere in primo piano la vita nel suo svolgersi casuale e accidentale, i suoi intrecci con la storia, con i linguaggi, sceneggiatura non impeccabile, ma buona resa drammatica. Amores perros resta il migliore, 21 grammi troppo artificioso
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