Su un soggetto semplice e terribile, Chéreau ha realizzato un film “concreto”: la pelle, le cicatrici, il sudore, il sangue sulle lenzuola s'imprimono nella materialità della pellicola con un'evidenza e una fisicità che il cinema corrente sembra ignorare.
La morte del protagonista "vive" attraverso le corsie degli ospedali, dove si incontrano giovani morenti, deliri notturni, garze e siringhe.
Ben accompagnato da attori pronti ad annullarsi nei personaggi in un'interpretazione interiorizzata e antipsicologica, il regista francese narra l'inesorabile malattia di Thomas, che assistito da Luc, passa dalle cure ospedaliere alle rive del mare dove si consuma l'atto finale, esplorando il lento degradarsi del suo corpo e nulla risparmiando allo spettatore dei tormenti di un fisico martoriato da tremori, sudori ed emorragie.
La macchina da presa pare accarezzare con dolcezza i corpi, ed anche con una profonda malinconia. Il cineasta parigino, apprezzato anche come regista teatrale, sceglie angolature scarne, i visi dei fratelli sono vicinissimi o si perdono in lontananza, i corpi diventano materia filmica per eccellenza, ematomi, mani che si stringono.
Quello del regista è un approccio estremo: si potrebbe definire impietoso se non fosse per l'alto livello di stile che, prosciugando la vicenda di facili patetismi, la risolve in una splendida parabola sulla dignità con cui si può affrontare l’ “evento” fondamentale della vita; la morte.
Un film che scorre rapido. Come un frammento. Oppure, una natura morta. Una particella o due del dolore universale.
Orso d’Argento per la Miglior Regia al 53° Festival di Berlino. |