Neanche a farlo apposta, i due titoli del film, l’originale Freedomland e l’italiano Il colore del crimine, nella loro diversità esprimono le due anime di quest’opera dalle tinte fosche, ambientata a Dempsey (New Jersey) nel 1999 – ma poteva essere la Brooklin di Spike Lee o una delle tante cittadine dell’entroterra americano, così simili, così tipiche, così arretrate.
Il luogo dell’azione è Armstrong, il quartiere nero di Dempsey: la denuncia non fa notizia, che un qualsiasi bianco valga, agli occhi delle autorità, più dell’intero quartiere-ghetto è ormai un dato di fatto che i film e non solo ci ripetono con una costanza che rischia di portare all’accettazione. Ribellarsi è doveroso, ma c’è modo e modo, e un film costruito ad arte al servizio di una comunicazione stantia è il modo sbagliato. Qua e là spunta qualche scena che potrebbe colpire se non si trattasse, il più delle volte, di citazioni se non plagio di altri film: la battuta “Fa’ la cosa giusta” rientra sicuramente tra le prime, ma il parallelo tra le due pellicole era fin troppo palese, fino allo scontro tra popolo e polizia per il quale Joe Roth sceglie di affidarsi esclusivamente alla musica e ad uno sterile ralenty, scalfendo appena la corazza dello spettatore indurita da decine di situazioni identiche (una migliore soluzione, per rimanere all’attualità cinematografica, è quella che si ha nel finale di V per Vendetta).
L’altra anima del film, quella che meritava maggiore attenzione non fosse altro perché meno abusata al cinema, è quella che risponde al titolo originale, il giallo della denuncia di un non-rapimento e delle ricerche fittizie, tese a far uscire la verità dalla bocca di chi la sta nascondendo.
La parte nell’ex-brefotrofio è valida finché rimane in campo lungo, ma i primi piani non convincono completamente, nonostante Julianne Moore, di solito eccellente (e bella), fornisca un’interpretazione centrata proprio nella parte finale del film.
Lasciando da parte gli evitabilissimi cliché della coppia poliziotto nero – poliziotto bianco e le situazioni personali del poliziotto e del colpevole che convergono decisamente fino a che i due hanno la stessa allucinazione, rimane evidente il problema di fondo: le due anime del film s’intrecciano senza fondersi, e sotto il traguardo non arriva la morale del film ma quella personale di Lorenzo.
Per dare un’ovvia risposta ai titolisti italiani, il colore del crimine è il bianco, il colore del potere. |