Ambientato nella distratta e frenetica Parigi contemporanea, “Storie” è un racconto corale, sotto forma di un fluire ininterrotto di microstorie che a volte si intrecciano.
Michael Haneke (“Funny Games”, “La Pianista”) evita qualsiasi compiacimento e mira all’impietosa analisi della società moderna, dominata da simboli rarefatti, dietro i quali si nasconde il potere del denaro, ormai unico vero Dio dell’uomo.
“Storie” alterna brillanti e originali vicende ad altre più conformiste, trascinando lo spettatore in questo dolce-amaro gioco di vetri colorati che è la vita quotidiana.
Come avverte il regista con un sottotitolo all’inizio del film, i racconti sono volutamente incompleti e incompiuti, come pure il passaggio da una storia all’altra, spesso in forma di stacco netto. Stile di montaggio che efficacemente sottolinea il continuo divenire delle vicissitudini umane.
Sono tanti i linguaggi che rimangono irrisolti, in un mondo in cui vi è un sempre più grande flusso di informazioni ma una totale assenza di comunicazione: il gioco dei mimi dei bambini sordi è impenetrabile, ma non più del palazzo di casa propria quando cambiano il codice del portone.
Le situazioni che, scomposte in piani sequenza di varia lunghezza, compongono il film, si basano infatti su una sotterranea incomunicabilità che rende distante ogni personaggio dagli altri, ognuno presente in un mondo chiuso e sufficiente a se stesso ma incapace di porsi non solo in confronto, ma persino in conflitto con chi lo circonda.
Il cinema di Haneke, radicale, destrutturato, multietnico, non è attraversato dal grottesco e dall'ironia come il precedente “Funny Games”; la denuncia del materialismo consumista, la lancinante accusa verso un capitalismo straripante si sente nel filosofico lungometraggio come anche la mancanza di "codici conosciuti".
“Storie” è un teatro della comunicazione mancata, la rappresentazione di una nuova crudeltà; la radiografia di una violenza sorda e atona che dilaga ovunque.
Presentato al Festival di Cannes (2000). |