Dopo lo sgargiante luna-park di “Ocean’s Eleven”, Soderbergh torna ad avventurarsi sulle vette del cinema d’autore, ma evidentemente soffre l’alta quota. Non ci sono più la denuncia sociale e gli spunti politici di “Traffic” o di “Erin Brockovich”, sostituiti da uno sguardo introspettivo che il regista appunta sui suoi personaggi (ma qua e là sembra di leggere anche una riflessione generale sullo star system). Ma il “Soderbergh-style” è ben riconoscibile dai suoi tratti più appariscenti. La produzione è hollywoodiana, con tutti i crismi del caso, specialmente nella scelta del cast, dove come al solito non mancano almeno due-tre nomi di richiamo; e questo alla faccia della apparente scelta indipendente che un nome come la Miramax dovrebbe rappresentare (ma forse, è opportuno dire, ha rappresentato). Le presunte scelte d’autore si riducono alla macchina da presa digitale, a spalla e traballante, come a dire che la povertà dei mezzi (pretestuosa, come si è detto, se solo si pensa ai cachet che gente come Brad Pitt o Julia Roberts avranno intascato) è di per sé garanzia di cinema di qualità; quanto meno, le scelte cromatiche in “Traffic” erano narrativamente funzionali e esteticamente apprezzabili. La caratterizzazione dei protagonisti, il quadro di un mondo di frustrati e insoddisfatti, sembra più costruita per accattivarsi lo spettatore che davvero sentita. Oltre a tutto ciò, in “Full Frontal” c’è, nuova, una impostazione metacinematografica, con una trama che ha per motore centripeto la festa di un produttore, con il film che si alterna a immagini di un altro film, interpretato da alcuni dei protagonisti (con tanto di titoli di testa), con ripetuti giochi di rimandi e ammiccamenti al carattere fittizio della rappresentazione (la Keener che impreca contro i fottuti cineasti che bloccano il traffico, il finale in cui si la camera si allarga a rivelare il set in cui si sta girando). Ma il risultato è sciocchino e superficiale, e, tolti alcuni dialoghi brillanti, non dice mai niente di significativo, come un gioco tirato in lungo dove il tasso di pretenziosità artistica e di ricercata sofisticazione è proporzionale alla scarsità della sostanza. |