deliri
e lenti ritmi sotto il giorno rutilante,
più forti dell'alcol
Il quieto scorrere della corrente, una rotta mantenuta per inerzia: l’uomo di cui parla Chabrol non è in grado di attendere il suo porto, ma si fissa in testa un obiettivo e inizia una corsa alla cieca, nella quale l’ambizione annebbia la vista come se un fiume d’alcol scorresse di sotto, e poi attorno, fin dentro le sue vene.
L’ebbrezza del potere è vissuta fondamentalmente in due modi diversi, tra chi programma la propria ascesa e chi si trova ad assaporarla all’improvviso; nell’esercizio improprio, però, sembra quasi non esserci differenza tra il pubblico ministero che si scaglia sulla preda ormai allo scoperto, avido di sangue e successo, e politicanti corrotti, presidenti che rubano, magistrati conniventi.
Di fronte all’uomo c’è uno specchio distorto, che rimanda indietro la sua immagine ma non gli permette di rendersi conto di cosa sia diventato: Jeanne è una macchina che va da sola, ormai, come un battello che ha rotto gli ormeggi e si gode un’inebriante sensazione di potenza e libertà (la metafora è suggerita da due immagini, oltre che dal titolo originale dal velato eco rimbaudiano – non può essere un caso, tre anni dopo il riferimento a Baudelaire ne “La Fleur du Mal”). Non parla più di legge, ma di sé e dell’obiettivo di far naufragare chi si crede inaffondabile.
Il naufragio più eclatante è il suo, con i nervi del marito che cedono quando si scopre impotente in un’orgia di potere: la sua è la tragedia del potere, e Jeanne è la sua aguzzina non meno di quanto si sforzi di esserlo per Gerard o per Jules.
Cosa ci sia dietro a questa visione dell’uomo non è chiaro: Chabrol abbozza una società corrotta in ogni suo aspetto senza analizzarla, adagiandosi su un luogo comune oggettivamente verosimile, prendendolo però per assioma e costruendo su di esso, senza degnarsi di darne una dimostrazione, tutto il suo discorso. Ne esce fuori un’inutile, amara considerazione su un mondo che è quello rappresentato, sul pretesto e non sull’oggetto della storia, un assurdo concettuale che costringe ad un passo indietro per tornare ad una comunicazione efficace. Si torna all’essere umano, dunque, al centro di un film cucito addosso ad Isabelle Huppert, voluto da Chabrol su misura per la sua musa: le forzature nella narrazione passano in secondo piano quando un suo strumento, l’interprete, offusca tutto il resto, al punto di permettersi un’uscita di scena al pari del battello più volte evocato. Il potere, l’ebbrezza, il film stesso: “Je ne puis plus”, vorrebbe dire. Lo dice. |