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Juárez, Messico. Eva, una giovane lavoratrice sottopagata di una delle tante fabbriche “maquiladoras” della città, viene violentata e sotterrata dall’autista dell’autobus che la stava riportando a casa. Come Eva, centinaia di altre ragazze nella “bordertown” tra Messico e Stati Uniti subiscono ogni giorno la stessa sorte. Lauren Adrian, bella e intraprendente inviata del “Chicago Sentinel”, viene incaricata di seguire da vicino i vari omicidi e per farlo chiede aiuto al suo vecchio amico Alfonzo Diaz, direttore del quotidiano locale “El Sol”, l’unica istituzione che ancora si batte per far luce su quanto sta accadendo. |
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Presentato in anteprima assoluta alla 57° Edizione del “Festival di Berlino”, il film racconta forti contrasti culturali e ingiustizie sociali; storie di giovani donne sottopagate nelle “maquiladoras”, impiegate a tempo pieno ad assemblare beni a basso costo da vendere al mercato americano; violenze, stupri e omicidi. Tutto nitido, alla luce del sole e, di notte, a quella della luna… eppure tutto ogni volta celato dalle stesse forze di sicurezza del posto, che ad ogni nuovo cadavere scoperto nel deserto cercano di gettare sopra altra sabbia. Nello sfondo, la fotografia di Reynaldo Villalobos si sforza di ritrarre tutta la miseria e la desolazione di sterminate bidonville buie e semidistrutte, strade polverose e cotte dal sole e insegne sfavillanti di quartieri a luci rosse. In alcune inquadrature però esagera in rivestimenti e dove dovrebbe documentare cresce di artificiosità.
La sceneggiatura dello stesso Gregory Nava, regista oltre che produttore del film, si focalizza su tre personaggi, ne delinea i contorni e li fa ri-incontrare, a volte in maniera un po’ forzata, alle soglie del patetico, altre con più naturalezza, ma non riesce a scampare agli stilemi del romanzo e della finzione. Il regista fa leva sugli attori: l’adolescente Maya Zapata violata nella sua femminilità, Jennifer Lopez giornalista coraggiosa e indistruttibile e il suo collega-amante? già da tempo collaudato sul grande schermo, Antonio Banderas. Alla prima va una nota di merito per risultare spaventata e credibile, la seconda, ancora meno attrice del solito, si concentra di continuo più sulla sua “prorompente” plasticità che sul cercare un minimo accenno di espressione. Tutti e tre sempre e comunque belli e incipriati, da apparire inattendibili.
Anche se la pellicola scade in una forma di cinematografia troppo appariscente, è da premiare il coraggio del regista messicano e dei suoi sostenitori dell’Amnesty International. L’intento alla base è saldo e ardito: mostrare la triste condizione e l’impotenza di fronte ad una realtà terribilmente attuale. La più sincera nota di merito però è per la voce della messicana Lila Downs, che tocca le tonalità di un grido disperato, con la speranza di ridare voce a tutte quelle bocche sotterrate nel deserto e tra i rifiuti delle discariche di una “città di confine”. |
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