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L’ennesima, vana ricerca del Graal s’è conclusa. I cavalieri della tavola rotonda sono divisi in due fazioni: da una parte Lancillotto, amante della regina Ginevra, con pochi compagni; dall’altra Mordred, con la sua invidia, la sua ambizione, ed un buon numero di seguaci. Messi Artù e Lancillotto l’uno contro l’altro, Mordred riuscirà ad avere la meglio su entrambi. |
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Una facile ricostruzione storica cancella l’iconografia tradizionale che ruota attorno al ciclo arturiano: Bresson riporta i paladini dell’onore e della lealtà ad un più verosimile manipolo di assassini e saccheggiatori. Al di là della distinzione tra buoni e cattivi, che caratterizza le due fazioni rivali, emerge la figura di Lancillotto: il più valoroso dei cavalieri, sempre fedele al re, allo stesso tempo lo tradisce con la sua sposa, né si distingue dagli altri per una minore brutalità. È un antieroe, ottuso ed orgoglioso, che agisce senza considerare prima le possibili conseguenze, dilaniato dal conflitto interiore tra la sua fede ed il suo amore colpevole. Incapace di mantenere un proposito dettato dalla ragione e non dall’istinto. Il gesto finale, il nobile slancio in soccorso del re tradito, non è altro che l’ultimo degli errori che la sua impulsività gli fa compiere.
Non meno stupefacente è la raffigurazione di Artù: i suoi cavalieri si contrappongono senza che intervenga, non apre gli occhi su un adulterio di cui tutti sono a conoscenza, si fida infine di colui che lo tradirà. Ma ciò che più colpisce è la sua assoluta mancanza di polso, incapace di prendere alcuna decisione, limitandosi a pregare che la colpa comune venga loro perdonata. Questa colpa comune, l’aver finalizzato la ricerca del sacro calice alla gloria personale, al potere, non è vissuta da Lancillotto, convinto che alla base della collera divina vi sia il suo rapporto con Ginevra. Non è umiltà, ma orgoglio, gli dice la regina, credersi responsabile di tutto; identico peccato commetterà ella stessa pensando che l’amato sia fuggito per via del loro amore, mentre Lancillotto aveva preferito, alla sua compagnia, difendere il proprio onore ad un torneo.
L’insolita versione della mitologia cortese è messa in scena in maniera altrettanto particolare: con lo stesso distacco assistiamo tanto al saccheggio d’una chiesa quanto ai momenti d’intimità dei due amanti, ogni gesto è mostrato per quello che è, non per le sue motivazioni, così un uccisione nel nome del Graal rimane prima di tutto un assassinio. Le frequenti inquadrature dei cavalli, il nitrito che s’ode ogni volta che Lancillotto s’accinge a far qualcosa rendono esplicito il parallelismo tra uomini e bestie, comunque sotteso dalle loro azioni.
Il punto più alto del processo di smitizzazione Bresson lo raggiunge nella sequenza del torneo: l’inquadratura è fissa sulle zampe dei cavalli, nascondendo la sostanza della giostra, lo scontro tra i cavalieri, le imprese di Lancillotto. Il tutto è ridotto ad un processo meccanico, un alternarsi monotono di tromba, corsa dei cavalli, rumore di ferraglia e cambio della lancia per dare il via ad un nuovo scontro. L’apoteosi dell’azione priva d’alcun significato.
Memorabile l’essenzialità del finale: Lancillotto decide di correre in aiuto di Artù, tradito da Mordred; un cavallo scosso galoppa per il bosco; alcune frecce si conficcano nella corteccia degli alberi; il re e la sua scorta, l’eroe del Lago e il suo cavallo giacciono morti, ammucchiati come animali. |