Chicago, 1930: Al Capone da una parte, spalleggiato – per non dire protetto – da polizia e stampa; quattro uomini, una mini-squadra decisa a porre fine alla sua legge, dall’altra. Intoccabili, ovvero incorruttibili; hanno sposato la giusta causa, e non ne viene fatto mistero allo spettatore che, grazie a tre scene consequenziali, inquadra da subito ogni personaggio nella sua dimensione. Così, ad un Al Capone beffardo, a suo agio al centro dei riflettori mentre tutti attorno osservano, ammirano e, al massimo, applaudono, si contrappongono l’intimità della famiglia di Eliot Ness, presentata con una musica rasserenante come un nido d’amore e buoni sentimenti, e l’incontro, ironico ma leale, tra Ness e Malone. Inutile chiedere qualcosa ai dialoghi, in questa fase: la loro funzione è soltanto quella di introdurre i personaggi.
Dopo questo prologo un po’ troppo scontato, con tanto di scelta, al poligono, della recluta veloce di lingua quanto di pistola, finalmente la squadra degli ‘intoccabili’ si mette al lavoro: da qui in avanti assistiamo ad un film brillante, sostanzialmente omogeneo, nel quale De Palma può mettersi in mostra senza disturbare l’azione. Gli interventi del regista sono frequenti e, seppur nel rispetto della narrazione, fatti in modo da non passare inosservati, dalla sequenza in cui invece di zoomare sceglie di camminare con la macchina da presa in spalla avvicinandosi a Ness, alla suggestiva ripresa dall’alto, ad allargare l’inquadratura sul tavolo dove, armonicamente, si espande la macchia di sangue, fino alla scena madre di tutto il film, con la carrozzina giù per le scale, in una citazione così evidente della “Corazzata Potëmkin” che si corre il rischio di dimenticare il resto del film e ridurlo a questa sola sequenza.
Invece “Gli Intoccabili” mantiene la sua identità particolare di western camuffato da poliziesco, con i suoi personaggi stereotipati ma godibili, senza che nessuno, né Kevin Costner né Sean Connery né un giovanissimo Andy Garcia, provi a dare al suo personaggio quel ‘tocco’ che lo faccia uscire dal copione: giusto così, quando si parte dalla realtà alla realtà bisogna tornare. Diverso è il discorso per Robert De Niro, chiamato ad impersonare un cattivo col quale il pubblico non deve solidarizzare: la libertà è ancora meno di quella concessa ai buoni, del suo personaggio devono rimanere la violenza, l’arroganza, una morale di facciata (il baseball come metafora della vita) e, al massimo, qualche battuta (“su una barca è spaccio clandestino, nei quartieri alti è ospitalità”).
Sul più bello, quando la conclusione dell’azione potrebbe lasciar spazio ad una meditazione amara, ad un tocco crepuscolare, l’impresa epica torna ad ancorarsi alla realtà: Ness, che è arrivato ad infrangere la legge per difenderla, potrebbe mollare tutto perché in quella stessa legge non si rispecchia più; invece, si limita ad uscire di scena, accostando garbatamente la porta, con tanto di stretta di mano. |