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Una sezione sanitaria dell'esercito italiano si accampa nell'estate del 1940 a Sorman, una sperduta oasi nel deserto della Libia. La guerra lì appare come qualcosa di astratto e distante, di cui arriva solo un’eco saltuaria e menzognera attraverso la retorica dei bollettini di guerra. Nel campo c'è un'aria rilassata: il maggiore comandante passa il tempo a scrivere appassionate lettere d'amore alla sua giovane moglie mentre un frate italiano coinvolge i militari nel soccorso della popolazione locale bisognosa di aiuto. La spedizione sembra così trasformarsi in una missione umanitaria. La situazione della guerra nell'Africa settentrionale, però, all’improvviso, cambia bruscamente e il campo di Sorman viene invaso, prima dai soldati in fuga, poi dai feriti che cercano scampo dagli inglesi. Ufficiali e soldati della sezione si trovano per la prima volta bruscamente a contatto con la realtà della guerra. |
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La guerra vista in disparte, come qualcosa d’astratto, un dramma interpretato da altri, di cui si sentono alla radio le gesta. La Libia come un posto qualsiasi dove introdurre delle storie per poi perderle nuovamente, senza definire nulla di profondo ma solo caratterizzando tutto, dal paesaggio alle sensazioni. Come ne "L'armata Brancaleone”, Mario Monicelli mette in scena dei protagonisti irreali, degli eroi inconsapevoli; getta lo sguardo nel basso, nel ventre dell’esercito, dove maggiori, tenenti e soldati hanno senso solo nel loro rappresentare la semplicità, mentre vivono e muoiono senza alcuna spiegazione, in modo talmente banale da risultare tragico.
L’Italiano anche nella situazione più grave sembra non esser mai serio, pregio e difetto di un popolo spesso al limite del paradosso e Monicelli, classe 1915, ancora si diverte a mostrarcelo, indugia sul particolare insignificante, crea come un mago tessitore una tela d’ironia e malinconia che avvolge come un velo arabo l’intero film donandogli una leggerezza infinita, forse addirittura troppa.
Proprio nei momenti più drammatici, dove il film pretende una svolta, un cambio di ritmo, Monicelli accelera l’irrealtà, il paradosso di una guerra senza senso, in primis proprio per lui stesso.
Forse proprio questo, a tratti, rende il film troppo leggero per essere davvero importante, per lasciare un segno profondo. Virare al tragico dalla commedia o risulta leggendario come nella “Grande Guerra”, o, come accade spesso, rischia la banalità e l’imprecisione e in effetti si ha la sensazione che manchi qualcosa, un’opera incompiuta forse volutamente, ma comunque incompleta.
Bravi e simpatici Alessandro Haber e Michele Placido nell’incarnare l’italiano comune, semplice, originale, che sia prete, militare, civile, giovane o vecchio; monocorde, quindi perfettamente nei suoi standard d’attore, Giorgio Pasotti.
Ispirato liberamente al “Deserto della Libia” di Mario Tobino e al brano “Il soldato Sanna” da “Guerra d’Albania”di Giancarlo Fusco, “Le rose del deserto” mescola epoche, toni, situazioni, umori e perfino immagini d’archivio, gioca al film storico e ride della storia. Procede a strappi, ma si sa: la forma perde di senso se è un maestro a voler far parlare il cuore. |