|
|
Lavilledieu, Francia meridionale, 1861. Herve Joncour è un allevatore di bachi da seta; quando l'epidemia attacca prima gli allevamenti europei, poi quelli del vicino Oriente, Herve si spinge fino in Giappone per procurarsene di contrabbando. E' proprio in quella terra 'ai confini del mondo' che il giovane mercante subisce il fascino di una fanciulla bellissima e misteriosa, la concubina di Hara Kei, un potente signore locale. Da quel momento, lasciando a casa la moglie Helen, si comincerà una serie di viaggi estenuanti e pericolosi per seguire un sogno impossibile... |
|
|
|
François Girard, che nel ‘93 aveva diretto il curiosissimo “Trentadue piccoli film su Glenn Gould”, qualche anno fa si è innamorato di un libro di Alessandro Baricco – Seta per l’appunto – e ha deciso di farlo diventare un film. Fin qui nulla di strano, anche perché il libro è un piccolo romanzo di 100 pagine sostanzialmente riuscito. Viste le sue qualità creative, però, era auspicabile ben altro approccio per una trasposizione non facile ma senz’altro ricca di spunti narrativi e grandi potenzialità visive. Molti aspetti, c’è da dirlo, sono curati ed eleganti: fotografia, scenografia e colonna sonora (del notevole Ryuichi Sakamoto) sono minuziosamente costruite. Quello che manca, però, è l’amalgama con una sceneggiatura senz’anima – a quanto sembra supervisionata dallo stesso Baricco – che finisce per banalizzare e appiattire una storia potente e universale. Le emozioni dei personaggi, non aiutati da interpretazioni modeste sia dell’esile Keira Knightley (“Espiazione”) che del monocorde Michael Pitt (“The dreamers”), rimangono timidamente sullo schermo e le atmosfere rarefatte sfuggono a uno stile e diventano formalità.
La sostanziale fedeltà al libro, eccetto la figura di Helene e l’introduzione del bambino Ludovic, in questo caso penalizza una storia poetica che dovrebbe parlare di amore, erotismo e inquietudine e che invece rischia di scemare nel sentimentalismo confezionato. Il lato psicologico dei personaggi, parte fondamentale per la funzionalità della trama narrativa, risulta appena sufficiente e i dialoghi, proposti sul grande schermo senza un’idea nuova, finiscono per apparire artificiosi e dilatati. Si va incontro, così, a un prodotto furbo e sbiadito, senza cambi di ritmo e con personaggi monotòni. Ogni suono, ambientazione, atmosfera, immagine o parola doveva irrevocabilmente fluire attraverso il potere del linguaggio (percettivo, corporale, contraddittorio, poetico, ossessivo, spirituale). Ciò che rimane, invece, è un film che ha una forza allusiva solamente discreta; “Seta” è una storia senza tempo ma anche senza coraggio e soprattutto senza idee. |