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In una piccola scuola maschile in un'area industriale dell'Inghilterra settentrionale otto studenti sono prossimi a realizzare il loro sogno: essere ammessi in una delle due università inglesi più celebri e prestigiose. Distratti dal sesso, dagli sport e dal caos che accompagnano la loro crescita durante gli anni '80, i ragazzi vengono aiutati, e talvolta ostacolati, da due insegnanti che sono diametricalmente opposti nel loro approccio didattico: il professor Irwin, brillante neo-laureato a Oxford e Hector, il poco convenzionale insegnante di letteratura, che si considera un pazzo e vìola tutte le regole nel tentativo di aiutare i ragazzi a scoprire in sé la saggezza. |
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Se “The History Boys” vuole essere “L’attimo fuggente” venti anni dopo, allora i vent’anni di differenza si sentono eccome. Il romanticismo del film di Weir non si vede quasi più, preso come gli ha il posto un cinismo estremamente attuale, così evidente nel modo che i giovani neodiplomati protagonisti della pellicola hanno di guardare il mondo degli adulti, nel quale stanno per entrare. Le uniformi dei college anglosassoni sono rimaste le stesse, così come le divisioni delle classi per sesso, ma si tratta più che altro di fossili di una storia veramente conclusa: gli scolari fanno un po’ come pare loro, linguaggio ipervolgare incluso, ad Oxford (cosa che sconcerta abbastanza) si può ormai entrare anche con una raccomandazione, e l’anticonformista professor Hector (Richard Griffiths) è cacciato da scuola non tanto per le sue lezioni inusuali, ma soprattutto perché ama palpeggiare gli studenti che riporta a casa dopo lezione sulla sua moto arrugginita. Ciò nonostante, la poesia riesce fortunatamente a fare più di una comparsa nel racconto; anche se praticamente nessuno dei protagonisti muove ciglio, l’emozione passa comunque, nel canto intonato per Hector o quando Posner (Samuel Barnett) recita gli straordinari versi del “Tamburino” di Thomas Hardy.
Il regista Nicholas Hytner mette la sua discreta dimestichezza con la macchina da presa al servizio del drammaturgo Alan Bennett, più che mai coautore del film; è infatti dall’omonimo testo teatrale di quest’ultimo che la pellicola è tratta, con una fedeltà filologica che coinvolge non soltanto soggetto e sceneggiatura, ma anche i protagonisti, tutti contemporaneamente interpreti sul palcoscenico (e molti, non a caso, esordienti sul grande schermo). La scelta sarà stata probabilmente dettata anche dal grandissimo successo, compresi numerosi premi, ottenuto dallo spettacolo sia a Londra che a Broadway: lo può suggerire il fatto che Hytner e Bennett abbiano fatto tutto nelle poche settimane libere tra repliche a Londra e tour internazionale. Il film non è però tirato via: e l’evidente impronta teatrale (non inconsueta nel cinema inglese; valga per tutti l’esempio di Kenneth Branagh) non lo rende lento, né eccessivamente dialogato. Bravi molti degli attori coinvolti, e curiosamente più i professori degli allievi; e che tristezza confrontare le mille risorse della scuola inglese con quelle ben più scarse della nostra. |