La grande attesa per l’uscita di un film normalmente è segnata da entusiastiche recensioni prima e amare, quando non severe, considerazioni poi. Per carità, è normale presentare un film nella miglior maniera possibile, ma quando poi si esce dal cinema con un latente senso di insoddisfazione, è sempre brutto doverne scrivere la recensione.
Di sicuro Tutti gli uomini del re non è Casino Royale o Borat, ma il buon cast e una storia accattivante fatta di politica, corruzione e intrighi vari sono dei buoni motivi per suscitare l’interesse dello spettatore, e invece, purtroppo, il primo lungometraggio da regista per Steven Zaillian (già sceneggiatore di Schindler’s list, Hannibal o The interpreter) è la più classica delle “occasioni perse”, vale a dire uno di quei film che avrebbero tutti gli elementi per poterne decretare il successo, ma che alla fine non riescono a convincere. La trama riprende quella dell’omonimo romanzo di Robert Penn Warren, che nel 1946 vinse il premio Pulitzer, ispirandosi alla storia di uno dei politici americani più controversi della storia: Huey P. Long. Figlio di un umile contadino, uno zotico come direbbe lui, riuscì nell’impresa di diventare governatore della Louisiana prima, e senatore poi. Diceva che preferiva essere “il re dei pesci piccoli in Louisiana che un pesce piccolo a Washington”, anche se presentò la sua candidatura addirittura per essere il presidente degli Stati Uniti; una personalità eccentrica quindi, un uomo buono e cattivo allo stesso tempo, umile ed ambizioso, ingenuo idealista e duro realista.
Il film dovrebbe ricalcarne proprio questi aspetti, cogliendo sfumature e dettagli di un personaggio contro-Potere, ma dal Potere stesso consumato. Sfortunatamente la sua parabola politica non viene sufficientemente spiegata nel film, che si divide in due parti nette e (quasi) antitetiche, che non riescono quasi mai a scavare in profondità, ad emozionare, a trasmettere un qualsivoglia messaggio: contro la politica o circa il Potere e l’enigmaticità dell’animo umano. Eleganti primi piani ed espressivi giochi di luce negli interni squarciati dai fumi di un sigaro sempre acceso, non riescono a trasformarsi in efficaci coinvolgimenti emozionali, dando invece il fianco ad una noiosa ricostruzione scenica senz’anima. Eppure non si può dire che il film sia brutto, perché se è vero che la gestualità (e il doppiaggio) di Stark/Penn è sopra le righe, è anche vero che la figura del governatore è incarnata perfettamente dall’attore americano. Se da una parte c’è approssimazione nello svolgimento della storia, dall’altra questa può contare su scene ben costruite e momenti coinvolgenti (come il discorso di Stark alle masse povere del paese prima che venisse eletto). Se da un lato il film poggia eccessivamente sulle interpretazione di Penn e Law, dall’altro può contare anche su attori del calibro di Hopkins, Winslet e Gandolfini.
Un’occasione persa, appunto. |