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Sierra Leone, 1999. Durante la guerra civile, un mercenario sudafricano, un pescatore africano e una giornalista statunitense uniscono le forze per recuperare un raro e preziosissimo diamante. |
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“Speriamo che non trovino il petrolio qui, sarebbe proprio un problema”
“Blood Diamond” è una pellicola dal dichiarato impegno sociale: vuole raccontare una realtà, quella di un continente dilaniato da guerre intestine che rispondono agli interessi di chi ne è all’esterno, ne sfrutta le risorse ed evita con cura che le braci si spengano.
Il venditore di armi e di diamanti (peggiore la seconda attività, perché causa principale della prima) diventa sempre più piccolo mentre l’inquadratura si allarga a mostrare le mani americane (ed europee, e non solo) che reggono i fili muovendo milioni di marionette inconsapevoli, convinte di combattere per la propria libertà; alla fine, i peccati enormi – ed enormi è dire poco – di Danny Archer vengono lavati dall’ultima buona azione, in una logica assolutamente nichilista che gli fa uccidere decine di ragazzini per salvarne uno in tutto e per tutto uguale agli altri: questo criminale avrà però un ruolo chiave contro Van de Kaap e gli altri spacciatori di pietre, gestori del contrabbando, delle guerre e di un mercato nel quale l’offerta è volutamente ridotta per tenere alta la domanda.
Al personaggio in chiaroscuro di Di Caprio (sempre più bravo, dieci anni fa sarebbe stato deriso chi avesse voluto scommettere su di lui) fanno da contorno due categorie di buoni – gli sfruttati dei quali fa parte Solomon e i benefattori/quasi martiri quali Maddy – e due di cattivi – i bianchi, tutti, e i miliziani del Fronte Rivoluzionario Unito, in guerra per una causa sbagliata con mezzi altrettanto sbagliati.
L’intento è lodevole, ma “Blood Diamond” fa l’effetto di un articolo letto su una rivista, interessante ma non rivoluzionario: non è un film di denuncia, o almeno non di quanto sia stato già ampiamente denunciato e parzialmente corretto. Quello che rimane, oltre alle ottime interpretazioni del già citato Di Caprio, di Djimon Hounsou e di una Jennifer Connelly che, quando sorride di tre quarti, sembra ancora la Deborah di “C’era una volta in America”, oltre ad una regia saltellante che alterna quasi scientificamente sequenze d’azione a carrellate sullo splendido paesaggio, è una presa di coscienza di un problema fondamentale dell’Africa: le risorse prime, che la rendono territorio di caccia, di saccheggio, di schiavitù, di guerre. |
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Commenti del pubblico |
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