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Dal 1918 al 1963, tra la Francia di Belleville e Parigi e l’America newyorkese, è narrata la storia della cantante francese Edith Piaf. Dall’infanzia trascorsa in un bordello, dopo l’allontanamento della madre e poi in giro a seguire il padre saltimbanco e a cantare per le vie di Parigi, fino alla fama e alla disperazione, passando attraverso gioie, tormenti, amore e infelicità ma sempre illuminata dalla sua arte, per la quale era disposta a sacrificare la stessa vita. |
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“La Vie en Rose” non è semplicemente un film. È un viaggio alla scoperta di un’artista e prima ancora di una donna, che ha fatto del canto l’unico mezzo per poter credere in se stessa. È per questo che l’ultimo lavoro di Olivier Dahan lascia delle tracce, per tutti.
L’intera pellicola è costruita sul filo dei ricordi della protagonista, una strepitosa Marion Cotillard alle prove con un’interpretazione non priva di ostacoli. Prima nella Parigi povera e grigia degli inizi del ‘900, a scoprire una Piaf bambina, poi sui palcoscenici di New York tra ovazioni e pettegolezzi e ancora a Parigi, a correre e cantare per le vie del quartiere di Montmartre, con una bottiglia di alcol e nient’altro, se non il dono di una voce che richiama il cinguettio di un passero. Che sono ricordi in flashback ce ne accorgiamo solo più tardi, quando sullo schermo appare una Edith adulta, sfiorita e nostalgica. Tutto prende vita attraverso i suoi occhi e la carica espressiva di cui sanno illuminarsi. Uno sguardo scrutato a breve distanza, fino a svelarne le gioie e le amarezze, nascoste in quelle rughe arrivate a solcarlo così presto. La peculiarità del film è nel suo realismo sincero: l’uso ricorrente di soggettive, a volte appena percepibili, fanno vivere in prima persona quegli scenari e gli odori e i rumori in cui sono immerse tutte le personalità, delineate con intensa efficacia intorno alla figura della cantante. Alle volte il regista sceglie di raccontare successi e glorie attraverso la cronaca dei giornali e le fotografie, fino a raggiungere il cinematografo: brevi inserzioni che non fanno però affievolire la pellicola nel taglio tipico del docudrama, che avrebbe segnato la perdita di quell’impronta così volutamente personale e penetrante. I dialoghi e la recitazione senza sbavature – di attori che riescono a suggerire trepidazioni e turbamenti anche rimanendo in silenzio – creano una tensione continua, mostrandoci il cinismo pungente di una donna fragile e determinata allo stesso tempo, che “teme la morte meno della solitudine, perché crede nell’amore”.
Una regia, quella di Dahan, senza spettacolari artifici linguistici ma carica, in ogni sequenza, di una lucida umanità… a dimostrazione di quello di cui poi al cinema si ha più bisogno. E così, nel ritorno della Piaf davanti alle luci della ribalta, assistiamo ad un’ultima esibizione, mostrata solo per immagini e bagliori, che diventano così vigorosi da dare l’impressione di sentire ugualmente, ancora per una volta, quell’incantevole voce. |
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Commenti del pubblico |
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